Come creo quello che non ho
Emily Mignanelli
Cosa succede quando vuoi qualcosa e questo qualcosa non c'è?
Succede che sei davanti all'opportunità di crearlo. Emily Mignanelli ci racconta come ha fatto lei, a creare a Osimo, nelle Marche una nuova idea di scuola. Dopo essere rimasta incinta presto, a 19 anni, si è resa conto che quello che aveva imparato a scuola non era sufficiente a risolvere le difficoltà della vita così ha iniziato a interessasi all'educazione dell'infanzia e dopo avere conseguito gli studi in materia ha aperto la scuola che considero dei sogni! Insieme parleremo di Emily Dickinson, di Korczak, di cene immaginare con la Montessori, di come noi essere umani siamo intelligenti, di galeoni delle lego e di prenderci cura dei bambini che siamo stati, di viaggi in India e della bellezza delle vite e delle carriere non lineari.
Buon ascolto!
(^_^)
“Quindi io sono partita non con un ideale pedagogico, sono partita con un'intuizione profondamente umana e materna: voglio dare qualcosa a mio figlio e se lo do a lui lo voglio dare a tutti i bambini della nostra città. E quello che sento e che non voglio che questi bambini vivano quello che ho vissuto io, ossia una percezione di non ascolto, non riconoscimento da parte degli adulti insegnanti che ho incontrato nella vita.”
— Emily Mignanelli
Scopri di più su Emily Mignanelli
Emily Mignanelli è laureata in Scienze della formazione primaria e Scienze Pedagogiche, è anche cultrice della materia in Pedagogia Generale presso l’università di Macerata. È una formatrice, una maestra, una scrittrice, blogger e fondatrice di Serendipità – Scuola Cominutà Dinamica, scuola per i bambini dai 3 ai 14 anni, e fondatrice del centro “Corallo”, centro di pedagogia dinamica e sistemica. Emily ha scritto “Non basta diventare grandi per essere adulti” edito Feltrinelli, Hundreds of Buddhas – Viaggio intorno al mondo alla ricerca di nuovi paradigmi educativi edito Lindau e “Genitori a scadenza” edito Feltrinelli Urra
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L’ETÀ DIMENTICATA - LIBERA IL BAMBINO CHE SEI STATO - FELTRINELLI
GENITORI A SCADENZA - DALL’ATTACAMENTO AL DISTACCO, AMARE È LASCIARE ADNARE - FELTRINELLI URRA
NON BASTA DIVENTARE GRANDI PER ESSERE ADULTI - FELTRINELLI
HUNDREDS OF BUDDAHS - VIAGGIO INTORNO AL MONDO ALLA RICERCA DI NUOVI PARADIGMI EDUCATIVI - LINDAU
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Ad Osimo, nelle scuola sulle colline, dove bambini e adolescenti germogliano con rispetto
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“Queste riflessioni mi hanno portata a pensare che non c'era nulla che mi piacesse dove mi sentivo di poterlo mandare e allora mi sono detta - Ok se non c'è niente significa che posso costruire qualsiasi cosa - Così è nata la prima scuola.”
Benvenuti a nuovo episodio del podcast “Le Faville” la serie dedicata a quel momento preciso in cui sentiamo che tutto sta per cambiare. La favilla è quella cosa che a un certo punto sboccia, salta, nasce e ci spinge a cambiare, creare, distruggere, ricostruire e ripensare ogni cosa. In questo spazio voglio celebrare le faville di persone molto diverse tra loro. Farmi raccontare come le hanno ascoltate e in quale luogo si sono fatte portare, attraverso conversazioni organiche e libere.
Ciao a tutte, tutti e tutt*.
Io sono Manuela e vi ringrazio per essere qui.
In questo terzo episodio incontro Emily Mignanelli.
Emily a un certo punto della sua vita, molto giovane si è trovata a dovere risolvere alcune difficoltà. Durante questi momenti si è resa conto che tutti gli anni di scuola fatti fino a quel momento non l'avevano preparata a risolverle, così forte dei suoi studi in materia Emily ha creato e realizzato una nuova idea di scuola.È una delle persone più avide di vita che abbia mai conosciuto, una di quelle persone che vivono tutto d'un fiato e tra un respiro e l'altro fanno cose grandi. È una formatrice, una maestra, una scrittrice, una blogger, la fondatrice di Serendipità, una scuola per bambini dai 3 ai 14 anni. È la fondatrice del Centro Corallo - centro di pedagogia dinamica e sistemica.
Ha scelto di fare tutto questo dopo la sua prima gravidanza pensando che fosse possibile dare a suo figlio e agli altri bambini della sua città tutto quello che lei come studente non aveva mai avuto e ha scelto di farlo a Osimo nelle Marche.
Insieme parleremo di corsi, di cene immaginari con la Montessori di come noi esseri umani siamo intelligenti, di galeoni della Lego e di prenderci cura dei bambini che siamo stati, di viaggi in India e della bellezza delle vite e delle carriere non lineari.
Adesso però vi lascio la nostra chiacchierata.
Buon ascolto!Manuela: Ciao Emily! Grazie mille per essere qui.
Emily: Grazie a te Manuela, ciao!
Manuela: Sono felicissima di averti qui perché tu sei una persona a cui vorrei fare milioni di domande! Mi capita più o meno ogni volta che entro in contatto con qualunque tuo post o articolo ma cercherò di contenermi.
Quindi inizieremo dalla prima, non originalissima probabilmente ma non posso resistere, ovvero inizierei da Emily che è il tuo nome di battesimo ed è ispirato a Emily Dickinson e com'è stato crescere con un nome così importante?
Emily: Questo nome mi ha accompagnato sempre con tantissime riflessioni e l'ho sempre vissuto come un dono. Però devo raccontare che in realtà io mi chiamavo Carlotta, non è che mi hanno cambiato il nome non so 8-9 anni o da adulta.
Mi ci sono chiamata per un solo giorno, però questo ha, secondo me, una grande rilevanza nella mia vita.
Io mi dovevo chiamare Carlotta in onore di due nonni che si chiamavano Carlo se non che alla nascita mia madre sostiene che avevo un viso molto corrucciato, molto arrabbiato di una che non era molto contenta di esserci e quindi lei sostiene di avermi voluto regalare un nome un pochino più poetico, un pochino più romantico per cercare di smorzare quel broncio che mi portavo dietro.
Mia madre sostiene di aver detto “questa mi farà prendere un colpo quando crescerà” e quindi hanno deciso di chiamarmi Emily come Emily Dickinson.
Intanto, ti dico che da piccola io vivevo questo nome proprio come un amuleto perché non c'era nessun altro che si chiamava Emily e mentre andavo a scuola con tante Elise, tante Chiare io sono sempre stata l'unica Emily ovunque (Emily ride) e non avevo mai trovato qualcun altro con il mio nome e ti dico, anche così un po’ con un leggero imbarazzo infantile, che mi sono vergognata di me stessa quando a un certo punto ho incontrato da adulta un'altra Emily e ho sentito proprio il: “Ma te non ti dovresti chiamare Emily!” Cioè, questo è il mio nome!
Manuela: Comprensibile! (Manuela ride)
Emily: Questo nome, dopo però crescendo me lo sono vissuta con altre riflessioni.
Perché se da piccola era un nome che aveva un accento di esclusività, una caratteristica, si tratta di qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri, eri peculiare. Crescendo ho iniziato a capirne il motivo, quindi, non è che mi chiamavo Emily con un nome diverso, mi chiamavo Emily per una poetessa che non aveva avuto questa vita così gioiosa, Emily Dickinson. È rimasta alla fine barricata dentro la sua casa, ha avuto questa storia d'amore mai vissuta. Tutte le sue poesie erano nascoste, cioè lei non è che era una scrittrice manifesta. Era una scrittrice per sé stessa.
A un certo punto hanno aperto dei bauli, hanno trovato poesie su poesie su poesie e…credo che questa cosa mi abbia influenzato. Perché è vero che il nome parla molto più di chi te lo dà che di te, però, crescere con un nome del genere, associato a un personaggio del genere credo che abbia influenzato il mio voler scrivere a un certo punto fin da piccola.
Io ricordo già alle elementari, avevo questi quaderni di poesie.
Mia nonna scriveva poesie, quindi ho sempre coltivato in gran segreto finché non ho potuto esprimerlo, il desiderio di diventare scrittrice.
Però forse questo è più interessante non so se hai già una domanda rispetto al lavoro di scrittura o se già svelo.
Manuela: Svela pure perché in realtà le mie domande saranno tanto concentrate su Emily e sul lavoro che fai. Quindi puoi svelare serenamente.
Emily: Ottimo, perché io non ho mai detto a nessuno che volevo fare la scrittrice eppure, se voglio essere molto onesta con me stessa e con chi ascolta, l’ho sempre desiderato. Però nessuno si azzarda mai, secondo me, nella vita a dire “io voglio fare lo scrittore!” perché nessuno si sente all'altezza - io lo scrittore, ma ti pare che voglia fare lo scrittore?” Poi di nascosto scrivi.
A un certo punto quando sono andata alla Feltrinelli, che mi ha contattata per fare questo incontro per la pubblicazione del primo libro, quando mi sono seduta di fronte alla editor, lei mi ha detto che voleva assolutamente pubblicarmi, che quello che aveva letto l'aveva entusiasmata io sono scoppiata a piangere in un pianto liberatorio che liberava i miei decenni di vita. Tutti gli anni che ho vissuto in cui avevo coltivato questo segreto e non avevo mai rivelato a nessuno, ma neanche al mio compagno, a nessuno! Era un segreto solo mio, mi sono sentita proprio legittimata nel poter dire “io voglio fare la scrittrice, io voglio fare la scrittrice da una vita, lo voglio!” Ed è stato bellissimo.
Manuela: Immagino! Sentire l'emozione nella tua voce lo fa capire molto bene.
Io quando ti leggo, quello che mi incanta sono i resoconti che escono dalla tua osservazione sul mondo, dove pensi di avere imparato a guardarlo così?
Emily: Bella domanda, sai che penso che nessuno mi abbia mai fatto una domanda del genere, così bella. Io penso, che non me ne ero resa conto finché tu non mi avevi fatto questa domanda!
Manuela: Che bella questa cosa! (Manuela ed Emily ridono)
Emily: Che forse lo guardavo un po’ diversamente, se devo trovare delle spiegazioni, credo che vadano ovviamente ricercate nella mia infanzia.
Nella mia infanzia io ho vissuto dei grossi dolori, che non sempre credo che siano stati compresi dagli adulti che mi stavano accanto e che a volte quando glie li restituisco rimangono sempre un po’ attoniti. Questi dolori, io sono riuscita a superarli perché ho avuto una persona molto speciale al mio fianco. Sai, nella struttura morfologica della fiaba c'è l'aiutante magico, tutte le fiabe ne hanno uno. Io ne ho avuto uno che mi ha affiancato per tanti anni, ed era la mia nonna paterna. Lei mi ha fatto vivere dentro a un libro, io mi sentivo…ma non lo sapevo, l'ho scoperto più tardi che poteva essere somigliante, però mi sentivo come dentro “Cent'anni di solitudine”.
Manuela: Wow!
Emily: Lei mi ha fatto vivere una dimensione assolutamente onirica e magica e mi ha insegnato a scoprire che dietro ogni dolore ci può essere una forma poetica, e che ogni dolore può essere trasformato in amore, e che qualsiasi situazione tu la puoi ribaltare in un evento assolutamente creativo ed espressivo.
Manuela: Adesso vorrei citare una tua frase letta in un articolo su di te scritto da Sabina Pignataro sul magazine Vita. Qui, tu dici “credo che il mondo si migliori un bambino alla volta, costantemente e instancabilmente”. Ti va di raccontare un po’ come funziona la tua scuola Serendipità?
Emily: Sì! Io a Serendipità ho costruito un approccio lentamente negli anni che si chiama Scuola Comunità Dinamica e quindi diciamo pedagogia dinamica.
Ti dico un attimo perché l'ho costruito così capiamo come funziona.
Tutto inizia quando a 19 anni rimango incinta e io - non volevo fare la maestra che questo venga messo agli atti, volevo fare la trapezista - volevo fuggire con il circo e sai perché volevo fuggire con il circo?
Perché mia nonna mi faceva sempre vedere il circo, sempre, e quindi credo che mi abbia proprio fatto l'associazione tra la libertà, forse era qualcosa che sognava lei. Questo riuscire a fluttuare, la possibilità di spostarsi da una situazione così, proprio monolitica all'interno della quale lei stava attraverso dei volteggi aerei.
Comunque, volevo fare la trapezista finché questo bambino mi ha imposto, il mio primo figlio, delle riflessioni circa l'educazione.
Queste riflessioni mi hanno portato a pensare che non c'era nulla che mi piacesse dove mi sentivo di poterlo mandare e allora mi sono detta “Ok, se non c'è niente significa che posso costruire qualsiasi cosa”.
Così è nata la prima scuola.
Quindi io sono partita non con un ideale pedagogico, sono partita con un'intuizione profondamente umana e materna: voglio dare qualcosa a mio figlio e se lo do a lui lo voglio dare a tutti i bambini della nostra città. E quello che sento e che non voglio che questi bambini vivano quello che ho vissuto io, ossia una percezione di non ascolto, non riconoscimento da parte degli adulti insegnanti che ho incontrato nella vita.
Che non mi erano mai sembrati molto interessati a noi ragazzi.
La costruzione pedagogica è arrivata molto lentamente, ma neanche molto lentamente, comunque è arrivata gradualmente mentre lavoravo.E lavorando con i bambini l'evidenza più schiacciante, che loro mi hanno mostrato e sollevato, era che i bambini non avevano nessun problema anzi, uno ce l'avevano: il problema era che avevano degli adulti accanto.
Cioè, inizialmente io me la sono un po’ ciucciata quella che era l’informazione, il retaggio culturale, che mi era stato passato, che quando un bambino è agitato nervoso, silenzioso, il bambino è il problema. E all'inizio mi ero anche andata a fare dei corsi, oltre alle lauree per cercare di gestire bambini con complessità, finché a un certo punto ho avuto proprio un’illuminazione, un’epifania, anche questa di origine inizialmente autobiografica che poi si è trasformata in lavorativa, dove ho compreso (che è veramente stata una scoperta e sembra anche mi faccio tenerezza a dirmelo)
compreso che il bambino stava solo mandando messaggi, non c'era nulla di problematico in lui, lui stava in tutti i modi disperatamente, costantemente cercando di dichiarare che c'era qualcosa che non andava e lo cercava di dichiarare agli adulti, affinché essi cambiassero ambiente, ambiente emotivo, ambiente sociale.
E quindi ho capito profondamente che c'era un potenziale enorme nell'infanzia e che il mondo si cambia un bambino alla volta, ascoltando un bambino alla volta.
Perché quei bambini, tutti i bambini del mondo, hanno secondo me una compensazione della mancata consapevolezza cosciente di quello che stanno vivendo con una chiarissima capacità di tradurre simbolicamente il loro vissuto, te le descrivo meglio.
I bambini sono dei pollinici psichici. Loro lasciano indizi ovunque, e se tu segui le mollichine torni a casa. Il bambino ti mostra esattamente cosa c'è che non va, e se noi riuscissimo a connetterci ai bambini, e quando dico si cambia un bambino alla volta non è solo ai bambini che abbiamo di fronte ma i bambini che siamo stati, allora io credo che davvero cesserebbe la violenza, cesserebbero le guerre, cesserebbe tutto quello che diventa un conflitto reale di qualcosa che in realtà sta dentro di noi ma soprattutto sta nel passato.
Perché la vera guerra noi non l'abbiamo vissuta da adulti, noi da adulti riportiamo a galla delle guerre della nostra infanzia.
L’infanzia è un sequestro di persona spesso dico, a tutti gli effetti è così, e il bambino per sopravvivenza deve accettare delle condizioni, e se quel bambino malauguratamente metterà da parte il suo intimo sentire a favore della narrazione degli adulti, da adulto con un'alta probabilità riporterà a galla quel tipo di sofferenza, quel tipo di punizione senza ricordare dove l'ha provata e l'appiccicherà su qualcosa del presente che non è mai il vero problema. Mi sono spiegata Manuela?
Manuela: Molto chiaramente. Quindi il metodo scuola comunità dinamica, in che cosa consiste?
Emily: Hai fatto bene a richiedermelo! Perché avevo solo detto il motivo ma non avevo detto il come. Allora, il metodo nello specifico consiste in un lavoro autobiografico che viene fatto con i bambini a scuola. Quindi tutti i bambini fanno un lavoro preventivo autobiografico per portare a un livello consapevole, a livello cosciente il loro vissuto e affrontarlo da bambini, integrarlo nella loro vita accompagnati dagli adulti che hanno accanto, cosa che solitamente fanno gli adulti invece quando vanno in terapia.
Se tu va in terapia a 30, 40 anni, 50, ritorni alla tua infanzia.
E quindi l'intuizione che ho avuto è di cercare di fare questo in maniera preventiva con i bambini che sono nell'infanzia e tutte le informazioni sono fresche di prima mano e ci riusciamo a lavorare, perché i bambini hanno una plasticità, una capacità di movimento, una dinamicità che noi adulti ce la scordiamo.
Manuela: Questo è verissimo.
Emily: Questa è una parte importante, in cosa consiste?
Consiste nel fatto che ogni bambino lavora sul suo albero genealogico, sulla sua famiglia attuale, su quelle che sono le sue aspirazioni, su quelli che sono stati i suoi primi anni di vita, l'attaccamento che ha costruito su tutto ciò che riguarda i primissimi anni di vita e le informazioni che lui ha ricevuto e hanno determinato in lui una modalità comportamentale e di conseguenza, una costruzione identitaria che lui per tutta la vita si porterà dietro.
L'identità si costruisce nell’infanzia, si esercita e manifesta in età adulta, ma è l'infanzia il punto in cui noi dobbiamo lavorare.
Questa è una delle caratteristiche.
Un'altra caratteristica è l'accompagnamento delle famiglie.
Quello che noi diciamo alle famiglie e che se entra un bambino a scuola entra una famiglia intera, e le famiglie firmano un regolamento dove c'è scritto tra i vari punti che: ogni qualvolta un bambino manifesterà un disagio noi non diremo “tuo figlio ha un disagio”, noi ti inviteremo come famiglia confrontarci, perché la scuola non risolve i problemi delle famiglie. La scuola accompagna le famiglie a risolvere i problemi, e per me il ruolo sociale della scuola oggi è proprio questo di accompagnare e sostenere le famiglie, di collegare i bambini e i loro genitori, perché i bambini a oggi secondo me sono dei grandissimi orfani emotivi.
Hanno tutti i genitori hanno tutti delle case.
Il lockdown ha mostrato che questi genitori non li capiscono i figli,
non li riescono a gestire. Il problema non era che questi bambini stavano dentro casa chiusi. Il problema è che i genitori non li conoscevano erano degli estranei e il luogo domestico che dovrebbe essere il più sicuro si era rivelato una trappola.
Quindi le famiglie vengono accompagnate nell’integrare il loro vissuto, quindi anche i loro i genitori parallelamente fanno un lavoro sulla loro storia, sulla loro infanzia e sulla loro genitorialità: perché hai voluto questo figlio? Cosa hai proiettato su questo bambino? Quali sono le tue aspettative? E cerchiamo di andare a destrutturare tutta quella che è stata l'esperienza scolastica ricevuta; quindi, da noi ad esempio non ci sono voti, non ci sono pagelle, non ci sono compiti in classe.
Quindi andiamo a fare un lavoro con loro su come il giudizio ha creato in noi un errore d’interpretazione e dove noi assimiliamo il fare all’essere, cioè dove noi confondiamo il fare con l’essere.
Noi non siamo quello che facciamo. Io non sono un otto, io non sono bravo, io non sono una pedagogista io faccio la pedagogista.
Questo lavoro, mentre lo facciamo con i bambini ovviamente dobbiamo farlo con i loro genitori, perché è quello che diciamo alle famiglie “non possiamo chiedere niente ai bambini che noi non siamo in grado di fare.”
Se vuoi un figlio rispettoso sii rispettoso.
Se vuoi un figlio che dice la verità, di’ la verità.
È qui sulla la verità potremmo aprire un grande capitolo, perché se qualcuno mi dice “ma la tua è la scuola della libertà?” No. La nostra è la scuola della verità.
Dove noi affrontiamo la verità nel senso che a ogni bambino viene raccontata la sua vera storia, ogni genitore viene accompagnato nell'affrontare realmente le proprie emozioni e cerchiamo di essere in una dimensione di profonda onestà, schiettezza e lealtà gli uni con gli altri, che è la forma di rispetto più alta. Poi gli insegnanti.
Per arrivare a un altro punto cardine della scuola, è che gli insegnanti, tutti, fanno un lavoro di supervisione psicologica. Nessun insegnante che lavora con i bambini è esentato dal fare un lavoro su di sé. Tutti gli insegnanti lo devono fare, perché gli insegnanti sono i segnanti, coloro che segnano i bambini, e questa responsabilità la devono vivere in maniera molto forte.
Per riuscire a evitare di lasciare segni nefasti occorre fare un lavoro sulla propria storia perché i bambini ci tirano fuori quelle che sono le nostre questioni irrisolte.
I bambini sono degli psicoterapeuti, incauti, involontari, non vorrebbero ma lo fanno e gli insegnanti entrano in risonanza. Quindi gli insegnanti amano dei bambini e ne disprezzano altri, non lo ammetterebbero mai durante una conferenza ma è così, credimi. Alcuni bambini piacciono, alcuni bambini non piacciono, e non è che piacciono o non piacciono su una base oggettiva.
Perché poi, quello che non piace a uno piace a un altro.
Piacciono o non piacciono su una base emotiva che riguarda il tuo vissuto, e secondo me, se sei un insegnante professionista non ti puoi permettere di pensare una cosa del genere, perché se lo stai facendo vuol dire che quel bambino ti sta attivando un tuo mondo interiore che tu devi guardare. Perché devi riuscire a portare rispetto a tutti i bambini, non devi amarli tutti, perché non si impone l'amore, ma rispetto sì.
E il rispetto passa attraverso una forma di propria pulizia interiore che tu devi fare, per riuscire ad avvicinarti loro ed essere certo che ogni giorno stai facendo il meglio per il loro futuro.
Un'altra caratteristica della nostra scuola è il lavoro esperienziale.
Quindi da noi la didattica passa attraverso il fare, attraverso l’azione, attraverso la sperimentazione, attraverso laboratori.
Dinamico è anche legata a questo, noi siamo molto in movimento, non è che siamo in movimento perché è una velleità nostra, ma perché gli studi neuro scientifici dimostrano ampiamente come il movimento, l'area motoria attiva l'area dell'apprendimento e come l’apprendimento sia molto più significativo e duraturo se associato all'esperienza e lavoriamo tantissimo ad esempio anche con le intelligenze multiple.
E qui si apre un altro punto cardine della scuola che è quello della metacognizione.
I bambini non ricevono voti, fanno tutti al lavoro di autovalutazione di costruzione dei propri obiettivi. Noi abbiamo inventato tutta una serie di strumenti interni per accompagnarli nella costruzione del loro processo didattico e nella percezione del “come sei intelligente”. La domanda non è se sei intelligente la domanda è: come sei intelligente? Perché ognuno di noi ha una tipologia d’intelligenza preferenziale. Abbiamo degli stili di apprendimento, Gardner che ha inventato la teoria delle intelligenze multiple dice: tu puoi essere cinestetico motorio, musicale, esistenziale, adesso non te le elenco tutte.
Però ha diverse modalità e la scuola statale invece privilegia solo chi ha un’intelligenza logico matematica o linguistica e tutti gli altri vengono in qualche modo scartati.
Tu esci dalla scuola pensando che non sei intelligente, ma questo si collega a quello che dicevo prima.
Durante la scuola tu costruisci la tua identità e non puoi uscire pensando che non sei intelligente, perché quello non ha un impatto così solo sulla tua prestazione scolastica, ma sulla percezione che tu hai di te stesso ed è qualcosa che la scuola non dovrebbe mai toccare. È un diamante dentro al museo, il diamante più prezioso dentro il museo che dovrebbe essere protetto da tutti i laser.
L'identità non si tocca, l'identità si salvaguarda, si protegge, si tutela e si accompagna.
Manuela: È assolutamente chiaro, e tra l’altro, ero qui che sognavo nella mia mente di poter partecipare anch'io alle lezioni.
Ovviamente, io so documentandomi che alla fine del percorso didattico questi bambini, che diventano poi dei ragazzini diciamo, perché comunque il percorso se non sbaglio è fino a 14 anni, vero?
Emily: Si sì, fino a 14.
Manuela: Escono poi, non solo, con tutto questo grande bagaglio molto importante, ma anche con la stessa identica istruzione che riceverebbero in una scuola statale.
Quindi possono tranquillamente passare al grado successivo senza problemi.
Emily: Esatto. Sì sì. Un po’ di differenze ci sono.
Perché è vero che noi facciamo ogni anno un esame in una scuola statale dove viene certificato il nostro anno, però siccome nella nostra giornata quotidiana i bambini fanno sia le lezioni, sia le attività espressive, sia hanno tutta una serie di aree extra.
Ad esempio, noi abbiamo una moneta interna, il negozio i bambini, ci sono dei lavori.
Quindi c'è tutto l'aspetto sociale comunitario, molto ricco, la coperta è corta.
Quindi noi facciamo una selezione degli argomenti, per cui i bambini da noi non fanno esattamente tutto, tutto, tutto quello che viene fatto in una statale, però guarda, l'ha spiegato molto bene mio figlio l'altro giorno mentre registravamo un altro podcast.
Ha detto “È vero noi studiamo meno argomenti rispetto agli altri, però se tu mi interroghi su tutto quello che io ho fatto quest'anno, io ti so rispondere a tutto, perché quello che facciamo lo impariamo, noi ce lo ricordiamo noi lo amiamo”.
Se tu vai da un altro bambino che ha dovuto imparare tantissime cose, studiare in continuazione non se le ricorda, ed è così!
Perché se adesso Manuela io ti chiedo "mi spieghi le guerre puniche?”, le avrai studiate almeno due o tre volte ma non te le ricordi probabilmente.
Manuela: Assolutamente no.
Emily: Esatto!
Quindi noi cerchiamo di fare un po’ meno cose ma che siano durature.
Che tu esci davvero con la sensazione che possiedi quella cultura, possiedi quelle informazioni e non che l'hai sfiorate con la punta delle dita, come se stai in una barca, sopra l'acqua perché dovevi farti dire bravo da qualcuno o dovevi portare quel voto a casa affinché qualcuno fosse contento.
Uno dei nostri obiettivi è che i ragazzi escono da scuola pensando che la scuola è UNA GRAN FIGATA! Tu devi pensare che è veramente bella la scuola, perché questo te la porti dietro, come sensazione. Tante persone, ad esempio, non fanno l'università perché dicono “è stata proprio una brutta esperienza”.
E io non voglio che loro escano con questa sensazione sgradevole tipo
“non vedo l'ora che finisca” ma con quella sensazione piacevole e anche un po’ nostalgica del “però peccato che è già finita!”.Manuela: Infatti questo è esattamente come uno dovrebbe avere la possibilità di uscire dal proprio percorso di studi.
Tutto il lavoro che hai fatto fino a oggi accanto ai bambini come ti ha cambiata?
Emily: Mi ha rivoltata come un calzino.
A me hanno insegnato tutto i bambini e non lo dico così con quella retorica un po’ naif, perché i bambini mi hanno dato proprio degli schiaffi, e io me li sono lasciata dare.
Schiaffi ovviamente simbolici, in cui i bambini mi hanno mostrato che tutto quello che pensavo dei bambini, non era così.
Erano in grado di essere spietatamente sinceri, di andare dritti al punto.
I bambini mi hanno insegnato a dire la verità.
Sai, come è iniziato il blog? Ho iniziato il blog, oltre perché mi piaceva scrivere, ma perché un giorno a scuola stavo seduta a un tavolo e guardavo un bambino di tre anni, andava a dare fastidio agli altri e ogni volta che dava fastidio agli altri, gli altri si arrabbiavano con lui. A volte lo spingevano, noi ovviamente intervenivano, però io lo osservavo e pensavo “ma quanto è coraggioso questo bambino ce l'avessi io, un centesimo del suo coraggio!”.
I bambini mi hanno insegnato il coraggio verso la vita, i bambini mi hanno insegnato l'attaccamento alla vita. Prova a metterti nei panni di un bambino che è a casa ha il genitore che lo picchia, ma tu ti rendi conto del coraggio ogni giorno di tornare dentro
quella casa? Di affrontare quella situazione?
I bambini mi hanno mostrato tutte le mie fragilità, tutte le mie ipocrisie e mi hanno detto “dai pedagogista! Fammi vedere cosa sai fare?!”.
Mi hanno imposto cambiamenti costanti e i bambini mi hanno insegnato, si…ad amare la vita, a non avere paura, a essere sfrontatamente allegra, a essere gioviale, ed essere nel presente, a pensare in grande e a dire…io posso veramente fare dei sogni giganti, io posso dire “io voglio fare la scrittrice” perché un bambino lo può dire “io voglio fare l’astronauta”, nessun adulto lo dice.
E porca miseria, io ho trentaquattro anni e dico “farò medicina da grande!”
Lo dico davvero Manuela, perché ogni tanto penso, vivrò fino a centovent’anni e prenderò la laurea in medicina.
Manuela: Infatti è fantastico, perché loro non sono ancora stati immersi come delle bustine di tè nel fantastico mondo del giudizio, nel mondo del per definirsi scrittrice devi avere già 20 libri alle spalle e avere vinto un Pulitzer e avere visto almeno 60 primavere. Questa società in cui viviamo che ci costringe sempre a validarci solo se rispondiamo a certi specifici criteri, sempre e solo scelti da altri naturalmente.
Emily: E i bambini ti insegnano anche a prenderti quello che vuoi adesso, non posticipare nel futuro. Il bambino è drammaticamente a volte nel presente. Ad esempio, io da loro ho imparato a dire voglio una cosa e adesso la faccio, non la metto più nel futuro. Ecco, voglio il monastero in montagna, io mi compro un monastero in montagna!Con tutti intorno a me che dicono “ma cosa fai? Ma come ci vai a vivere?”, ma che ne so, adesso vedremo. Io voglio il monastero e con la mia forza, la mia responsabilità me lo prendo!Io voglio il camper di Barbie me lo compro! Quest'anno per il compleanno, io mi sono regalata un Galeone delle Lego, e i miei figli mi hanno detto “ma lo porti a casa?”. No, lo tengo in ufficio, perché è mio! Il mio Galeone delle Lego.
Manuela: Wow! È mio! Mi sembra giusto!
Se potessi fare una domanda alla Montessori. Cosa le chiede resti?
Emily: Fai delle domande stupende Manuela.
Manuela: Grazie!
Emily: Allora, io ti dico quella che mi viene a bruciapelo, poi magari tra due ore penso, “certo, che potevo dire quest'altro podcast!”
Penso che le chiederei “perché non ha mai espresso chiaramente tutte le difficoltà di essere un’insegnante?”.
Perché lei ha costruito una visione molto rosea, molto bella, molto poetica però secondo me manca la parte della fatica, manca la parte della sincera fatica che ad esempio trovo in Korczak, Korczak te lo dice.
Ci sono dei momenti in cui tu i bambini neanche hai più voglia di vederli.
Che poi la risposta me la do da sola, perché lei portava un messaggio così grande che non poteva mettersi da sola a dire “sì, vabbè però è faticoso” perché già stava facendo una battaglia.
Però io lo chiederei, perché sentiva il bisogno di trattenere la verità.
La verità dell’emozione, perché se tu non sei completamente sincero crei un mito, e i miti secondo me non fanno tanto bene agli altri, perché ti tolgono dalla sensazione della possibilità di fare qualcosa.
“Vabbè io non sono così, non ce la farò mai.”
Però, se lei avesse messo ogni tanto quel “Ragazzi guardate, lavorare con Mussolini è stata una faticaccia! Oh, ragazzi, mi hanno esiliato sono stata male un mese.”
Tutto questo lei non ce l'ha messo, e ci avrebbe aiutato tanto invece a sentire che tutti potevamo fare quel lavoro, che le nostre miserie, le nostre difficoltà, le nostre decadenze interiori erano comunque il segno che anche quello andava bene.
Manuela: Sarebbe bello poterglielo chiedere.
Quale pensi sia stata fino ad oggi la tua più grande favilla?
Emily: Credo che la mia più grande favilla…perché ovviamente ce ne sono state tante. Ma se devo davvero indicare la più pura, quella che davvero mi ha fatto trovare di fronte al “non so cosa accadrà, ma sta accadendo e non mi tiro indietro” è stato rimanere incinta a 19 anni.
Perché la mia gravidanza non è stata semplicissima, io sono fuggita di casa, non ho detto a nessuno che ero incinta, lavoravo in uno stabilimento del bungee jumping.
Mi hanno provato a stuprare mentre ero incinta,
ho vissuto delle esperienze veramente forti.
Io quel momento provo a descrivertelo così, con un’immagine.
È come se io fossi salita nel trampolino più alto di una piscina, troppo curiosa mi sono sporta per guardare di sotto e sono scivolata.
Sono caduta, sono precipitata giù in questa piscina, in fondo, in fondo, in fondo finché con i piedi non ho toccato terra e sono riuscita a darmi la spinta, una spinta così forte che mi ha fatto volare fuori dalla piscina, in quel momento c'è stata la favilla.
Era proprio fisica perché io dicevo “dentro sento un nido caldo” e forse era quella vita che stava dentro, quella vita che m'ha fatto proprio dire “Io voglio vivere.
Io voglio vivere non per te, io voglio vivere con te. Io voglio viverla questa avventura nonostante sta succedendo tutto questo intorno. Io non lo so come questo fuoco sarà, ma io non mi tiro indietro”. E penso che quella sia stata la più grande.
Manuela: Tu hai iniziato a lavorare con i bambini che eri già una madre, come appunto hai appena raccontato oggi sei una pedagogista, una maestra, una scrittrice e la fondatrice di una scuola. Pensi sia vero quello che la società ci racconta, ovvero che solo dopo che si diventa madri si è in grado di capire come funzionano i bambini?
Emily: C'è una frase di Korczak, questo autore, pediatra e educatore che a me piace tantissimo, lui dice “non è detto che la maternità ti nobiliti, la maternità sì, ti può nobilitare ma poi sarai tu madre a decidere se vuoi allattare tuo figlio al seno o alla mammella”. E questa distinzione per me è fondamentale, perché lui dice, tu potresti crescerlo come un essere umano o come una bestia, e io vedo tante mamme che hanno scelto la mammella e non il seno.
Quindi non credo che la maternità faccia di te una migliore maestra, credo che la maternità sia un'ottima opportunità per comprendere che puoi scendere negli abissi della tua storia e svoltarli e guardarli perché un bambino ti impone questo,
ma tu lo puoi fare anche senza rimanere incinta.
È come dire, non possiamo dire che chi ha avuto un tumore e chi non ha avuto un tumore è la stessa persona perché di sicuro una malattia, un tumore, ti cambia ma non tutti quelli che hanno avuto un tumore hanno avuto un grande cambiamento personale.
Non è l'esperienza in sé che ti cambia è l’opportunità che tu ti concedi e che raccogli di vivere quell'esperienza come forma di cambiamento.
Quindi, di sicuro la maternità ti può permettere di diventare un'insegnante più accorta, ma non è automatico, così come delle insegnanti che non hanno figli a volte hanno fatto dei lavori così profondi su di sé che sono molto più attente, molto più accorte e sensibili rispetto alle insegnanti mamme.
Manuela: Da dove è nata l'idea di fare un viaggio di ricerca sulla scuola in America e in India, che so che hai fatto con il tuo compagno e con tuo figlio, che probabilmente era un po’ più piccolino di quanto è adesso.
E qual è stata la cosa più inaspettata che hai portato a casa da quel viaggio?
Emily: Quella è stata un’altra Favilla perché ci sono sempre diverse narrazioni su questo viaggio.
Di sicuro uno dei motivi era: avevo bisogno di elaborare un lutto, avevamo perso un bambino e quindi il non essere riuscita a diventare madre, quella è stata un'esperienza molto costruttiva, molto dolorosa, tanto dolorosa per me.
Mi ha fatto uscire con un “Non voglio più figli, voglio essere io figlia del mondo, voglio prendere nove mesi e andare a vivere questa gravidanza simbolica con la mia famiglia in giro per il mondo”.
Ma in realtà l'evento scatenante è stato che dovevo prendere un treno per andare a fare una formazione a Verona però ho sbagliato mese.
Io in questa vita super caotica che ho, con un'agenda fittissima dove ogni ora devo cambiare appuntamento, incontro persone, lavoro 15/16 ore al giorno.
A un certo punto mi sono trovata su questo treno e quando ho chiamato la persona dicendole che stavo arrivando mi dice “ma dove stai arrivando?!”.
Avevo sbagliato mese e in quel momento…sai quando nei film o nei cartoni c'è quella scena in cui qualcuno prende il libro dalla libreria e si gira la stanza?
In quel momento mi è sembrato esattamente che fosse accaduta quella cosa lì.
Quindi ero su un treno ma non ero più sul treno di prima, non ero più Emily che stava correndo per andare a lavorare in Veneto a fare una formazione.
All'improvviso ero me stessa su un treno in movimento e lì dovevo fare una scelta “Scendo e torno a casa o rimango e vado?”.
E lì mi sono presa il tempo e ho chiamato mia madre, e mia madre mi ha detto che mi regalava un soggiorno in hotel a Verona in centro e io ho detto “Cavolo, sì! Vado”.
E quindi mi sono presa questi due giorni per me, in quei due giorni sono successe tante di quelle cose, tante coincidenze, tante situazioni incredibili e ho pensato
“ma tu guarda quando io stacco dall'agenda, dalla mia quotidianità per un momento, cancello tutto quell’inchiostro, tutti quei numeri, quante cose succedono! E tu pensa a quante cose potrebbero succedere se avessi molto più spazio rispetto a due giorni!”.
E tornando con il treno per tornare a casa la domenica ho iniziato a scrivere, perché scrivo sempre, e ho scritto che dovevo andare in India.
Io non lo so perché, io non ho mai avuto il desiderio di andare in India.
Non ho mai avuto le tendenze new age oppure olistiche, però ho scritto “devo andare in India”. Non saprei veramente dirti perché ho scritto quella frase, quindi sono tornata a casa e ho detto a Michele “Noi dobbiamo andare in India!” e lui mi ha detto “io vengo in India se tu mi porti in America”.
E da qui poi abbiamo cucito tutto il senso della ricerca.
Però l'origine era stata questa, e poi vabbè abbiamo tutte le motivazioni che ci abbiamo messo sopra, che sono: volevamo fare una ricerca per andare a cercare nuovi paradigmi educativi, perché volevo verificare se la domanda che io mi stavo ponendo in Italia era la stessa che si ponevano altri.
Era un viaggio sulle tracce alla Montessori, perché è stata l’India e l'America che l'hanno resa quella che era. Per me la ricerca è stato un cercare di vedere cosa rimaneva su quando io in un momento di estrema soddisfazione lavorativa, dove avevo raggiunto tutta una serie di obiettivi che volevo, mi stavo volontariamente togliendo da tutto e lì mi sono detta “Io vado in giro da tutti e dico che mi sento integra, che sono felice, ma la mia felicità è dettata dalla persona che sono o è dettata dal successo che in questo momento sto avendo?”.
Perché il successo è relativo, per me quello era successo, e allora io tolgo tutto perché se davvero sono autentica io devo riuscire a rimanere in piedi una volta che ho tolto tutto quello che mi tiene in piedi.
E così è stato.
Ho vissuto i miei terremoti, i miei smottamenti ma io sento che quel viaggio mi ha davvero cambiato la vita.
Ci sono degli eventi della mia vita che mi hanno profondissimamente cambiata come ho detto prima, la gravidanza di Vittorio, poi c'è stata un'altra cosa a 24 anni, la perdita del bambino e il viaggio e io spesso dico noi “siamo partiti che eravamo una famiglia, abbiamo scelto di essere una famiglia in viaggio.”
E la cosa più straordinaria che mi sono portata a casa è stata una gravidanza.
Perché io sono partita, dicendo “non farò mai più i bambini” e il libro che ho scritto sul viaggio inizia così, io non faccio bambini, e durante il viaggio invece ho concesso alla vita di permettermi di essere un'altra volta portale.
Amedeo, ho scoperto che era con noi mentre eravamo in America, quindi non mi ero resa conto di essere rimasta incinta e appena arrivata in America, Michele mi ha detto “che faccio ti compro gli assorbenti? Vado a fare spesa?” e ho detto “Aspetta, ho una sensazione!”. E il test di gravidanza di Amedeo è stato fatto nel bagno di una scuola e ho festeggiando con tutti i bambini della scuola in California.
Sì! Amedeo, infatti, ha il viaggio nel sangue, perché se possiamo viaggiare è molto contento. E la prima ecografia di Amedeo l'ho fatta a New York in un'associazione di cattolici antiabortisti perché te la facevano gratuita.
Manuela: Una delle cose che amo molto del tuo percorso è la non linearità degli eventi nella tua carriera, eppure i risultati del tuo lavoro e i metodi sono straordinariamente strutturati, a me questo piace molto perché sono una grande sostenitrice dei percorsi non lineari ma sono stata anche a lungo vittima della visione sociale che ci chiede invece di essere quanto più lineari possibili. Cosa ne pensi? Tu, come ti percepisci?
Emily: Io mi percepisco che nuoto in una corrente oceanica e questa mi trasporta, e ogni tanto ci sono delle velocità improvvise, ogni tanto dei rallentamenti, ogni tanto delle soste in alcune barriere coralline e poi riparte.
Io non ho una progettazione rispetto a quello che faccio, di tutto il futuro, io ho delle intenzioni. E lascio che le intenzioni si uniscano a delle sincronicità. Io quando prima dicevo che i bambini mi hanno insegnato a vivere era davvero seria.
Io vivo come i bambini. La mia scrittura, come guido gli eventi, non è una forma strategica, non c'è altro che un sincero manifestare il mio essere ogni istante, seguire le intuizioni e lanciare costantemente semi tipo delle seed-bomb culturali, intellettuali ed emotive. E arrivano sempre delle persone, degli aiutanti magici, forse è mia nonna che mi protegge, che mi permettono di fare quello che io da sola non riuscirei a fare.
Quindi ad esempio, due anni fa ho iniziato ad avere l'intuizione che questo progetto non funzionava se non arrivavano degli imprenditori, dei finanziatori e sono iniziati ad arrivare tutti insieme.
Quando ho iniziato ad avere la sensazione che volevo scrivere, ho iniziato a coltivare il blog e sono arrivate le case editrici.
Io mi sento veramente dentro a un flusso, detto così prima dicevo che non avevo tendenze new age, ma finisco per esserlo.
Però è vero, mi sento in una corrente oceanica.
Manuela: Certo è ovvio, è molto importante sapere che cosa si vuole fare, e dove si vuole arrivare, mettercela tutta e lavorare sodo.
Però poi, dal momento che non siamo soli su questa terra, ci sono un sacco di esseri umani, e ci sono un sacco di cose che si muovono indipendentemente da noi, di conseguenza, siamo per forza trasportati anche dalla corrente.
Lì sta un po’ a noi sapere guardare, saper cogliere, sapere lasciar andare.
Emily: Io sento tantissimo la morte sin da quando sono piccola, questo lento incedere. Io ogni giorno penso: che cavolo un giorno e meno!
Mi sento come in una fila alle Poste, e ogni giorno sto facendo un passo avanti verso la cassa, e non vorrei.
E questo sentire profondamente la morte, che non è una paura della morte è un dispiacere dell'assenza di vita, mi spinge a onorare costantemente la vita ogni giorno.
E la morte quando tu la incontri e l’accetti, ti cambia.
Io non ti avrei, detto dieci anni fa che volevo fare la pedagogista.
Io non lo so cosa farò, io sono Emily e so a malapena chi è Emily e non ho un obiettivo di successo. La mia non è una tendenza professionale.
Io ho promesso a me stessa quando sono rimasta incinta a 19 anni che non sarei mai scesa a compromessi etici.
Il mio obiettivo è sostenere l’infanzia, il mio obiettivo è sostenere la vita e ogni volta si manifesta in maniera diversa perché succedono degli eventi che non ho mai pensato.
Ci penso spesso al fatto che le idee sono tue o di chi te le fa venire?
Perché io incontro tante persone che mi fanno venire un sacco d’idee,
e neanche se ne sono resi conto che me le hanno fatte venire.
Eppure, arrivano e ogni idea che arriva io la voglio seguire, come se mi facessi fecondare dalla vita che incontro, poi ci sono degli aborti spontanei perché delle idee finiscono lì, però sono avida, sono veramente avida di vita.
Quindi faccio fatica a dire di no e mi butto in ogni esperienza e lascio che quest'esperienza mi trasformi completamente. E tante volte ho fatto dei cambi repentini dicendo “No questa cosa non funziona più la lascio!”.
Mi sono cancellata dalle graduatorie statali perché dopo tre mesi di scuola, dentro una dimensione statale, ho sentito che quello prosciugata la mia moralità e distruggeva la mia possibilità di provare intima indignazione di fronte agli abusi di potere.
E allora io mi sono cancellata, mi sono rifiutata, ho rifiutato una sicurezza economica.
Che poi ho capito molto più tardi il profondo concetto del libero professionista e dipendente, in quelle parole c'è tutto.
Manuela: A proposito di corsi, io seguo la tua serie d’incontri che si chiama
Se solo lo avessi saputo prima, anche se non sono una mamma per ora e né un’educatrice.
Ma sostengo che è comunque utile ascoltarli è imparare come porsi, capire i bambini a priori, sia per il futuro ma anche perché, intanto sono una zia e comunque interagiscono con i bimbi, come tutti gli esseri umani e mi piace l'idea d’imparare a non fare danni.
Danni inconsapevoli che noi adulti facciamo anche ai bambini senza neppure accorgercene. Quindi intanto ti ringrazio per renderli pubblici questi incontri, credo che sia una splendida risorsa per tutti.
Ma la domanda che vorrei porre a te è, cosa avresti voluto sapere prima?
Emily: Allora se tu mi chiedi cosa avrei voluto sapere prima ti dico…così se penso alla vita in generale mi viene da dire, ma niente!
Proprio niente, mi è piaciuto tantissimo così, anche con tutti quei dolori, perché ogni dolore è un'enorme possibilità per capire meglio se stessi, perché il dolore non è mai il presente ma qualcosa del passato. Quindi ogni dolore mi ha fatto capire, mi ha fatto recuperare tasselli importantissimi nella mia storia.
Riguardo il mio essere genitore, sì!
Le avrei volute sapere prima delle cose.
Tutto quello che è legato non solo al movimento…al fatto che il mio essere genitore dipendeva profondamente dall'infanzia che avevo avuto.
Che avevo bisogno di fare prima un lavoro con la mia famiglia prima di diventare madre. Tutto quello, mi sarebbe tanto tanto piaciuto che qualcuno mi avesse accompagnato, perché avrei risparmiato delle inutili sofferenze ai miei figli.
Da adulta dico che il dolore mi fa crescere.
Però non credo che il dolore a un bambino sia utile, mai.
E i genitori che dicono “ma alla fine siamo cresciuti tutti” … Io glielo avrei risparmiato un po’ di dolore.
Soprattutto al primo figlio, al secondo figlio no, ero grande, avevo già competenze.
Poi sicuramente anche lì avrò fatto degli errori, però ad esempio, Amedeo ha tre anni e mezzo, io non mi sono mai arrabbiata con Amedeo, mai.
Con Vittorio invece ero molto giovane.
Vittorio ha goduto di tutta la mia energia, di tutta la mia infanzia, che era ancora lì.
Non se n'era andata, era il tramonto della mia infanzia, ma era freschissima…c'era quella luce rosa forte. Però si è vissuto anche una mamma che a volte si arrabbiava, che perdeva la pazienza.
Si è vissuto la mamma che non aveva tanti strumenti, che se l'è dovuti costruire.
Quindi ha visto dei cambi d'umore e mi dispiace molto e questo io glielo dico spesso, non è qualcosa che nascondo.
Io non nascondo gli errori che ho fatto, porca miseria se ne ho fatti ed è riconoscendoli che forse riesco a evitarli a qualcuno perché ha Vittorio, ad esempio, quando io gli parlo degli errori che ho fatto anche lui mi dice gli errori che ho fatto, io gli dico “per favore non te li dimenticare”.
Io non voglio che lui mi giustifichi come madre.
Io voglio che lui la mantenga quella forma di condanna verso certi comportamenti affinché non si trovi nella posizione di doverli giustificare finendo poi per ripeterli.
Manuela: Cos’è il coraggio per te?
Emily: Il coraggio…penso che la forma di coraggio, così a bruciapelo mi viene in mente è la capacità di vivere. Perché io penso, è un po’ il discorso che facevo prima, che se uno integra la morte come esperienza del domani, dell’oggi, del tra cinque minuti allora il coraggio di accettare che morirai ti fa vivere.
Mi fa dire “Quella cosa arriverà.”
E io non perdo un istante, e quindi forse il coraggio di riuscire ad accettare che nasci solo, muori solo, non devi sviluppare dipendenze né materiali, né affettive.
Perché poi il coraggio di vivere ha tutte le declinazioni: il coraggio di esprimere sé stessi, il coraggio di dire quello che pensi, il coraggio di non essere giudicato, il coraggio di alzarsi alla conferenza e prendere e andare via perché la persona sta dicendo delle cose fuori luogo, il coraggio di dire che sei omosessuale, il coraggio di poterti permettere di non perdere un istante della tua vita, pensando che la reazione potrebbe scatenare qualcosa nell'altro.
E sto parlando di tutte azioni rispettose ovviamente eh?
Non sto dicendo che una persona che ammazza gli altri è coraggiosa perché ha seguito il proprio istinto è malata ha delle disfunzioni emotive e delle sofferenze non rielaborate.
Penso che il coraggio sia proprio vivere.
Ma guarda veramente, io credo che sia tanto coraggioso vivere, e me lo voglio dire ogni giorno che vivo quanto sono coraggiosa, quanto sono stata coraggiosa oggi a vivere, ad affrontare tutto!
Quanto sono coraggiosa a pensare che sto vivendo sapendo che morirò.
Te non ci pensi mai Manuela che alla fine tutto quello che noi facciamo è destinato a una fine?
Ma forse hanno ragione i monaci tibetani, che si mettono lì in un monastero e attendono la morte facendo meditazioni e riflessioni, poi penso che invece io ci voglio stare qua nella trincea, a provare a migliorare le cose e lasciare il futuro un po’ migliore di come l'ho trovato.
Manuela: Io ci penso spesso alla morte. Spesso quando sono molto preoccupata per qualcosa o quando devo prendere una decisione importante, una cosa che mi chiedo spesso è “ma un giorno quando sarò molto, molto, molto anziana (si spera) e sarò vicino alla morte, e penserei appunto indietro questa cosa avrà importanza?”.
E quando la risposta è no allora si taglia con molta facilità.
Infatti, una volta ho fatto un esercizio che io ho trovato davvero, davvero intenso.
È stato scrivere una lettera a Manuela di 100 anni; quindi, la Manuela di cent'anni anni che scrive alla Manuela di 38 anni e poi a rispondere quella di 38 anni che scrive a quella di 100 ed è stato un interessante esperimento, perché è incredibile come io sia stata in grado di tagliare il superfluo quando a chi stai scrivendo è l'ultima sintesi di ciò che potresti essere o che vorresti essere. E quindi sì!
Credo che in realtà sia una cosa bella vedere le cose attraverso la lente della morte,
ma detto nella maniera più benevola possibile.
Io non credo che sia una cosa tetra, per niente.
Emily: Sì, veramente ce l'hanno fatta vivere proprio male questa cosa alla morte come qualcosa di nefasto, brutto, sporco, da tenere lontano. Ma se non integri la morte, come integri la vita? Perché la vita è morte. E quindi sì, credo che sia coraggioso vivere.
Manuela: Hai scelto fermamente di restare a Osimo sebbene ci sia stato un tempo in cui volevi andar via. Come hai cambiato idea? Come hai scelto di cambiare le cose partendo da casa tua?
Emily: Io non volevo andare…eh…non volevo rimanere a Osimo.
E poi adesso anche vedi? Ho un lapsus, ho detto “non volevo andare via” ed è curioso! Io volevo tanto andare via, porca miseria se volevo andare via, e poi la prima motivazione che mi sono data è stata la gravidanza mi ha zavorrato!
E quindi ho cercato di vedere in questa valle di disperazione una valle fertile, dove qualsiasi cosa sarebbe potuta crescere. Con il viaggio, un’altra cosa che racconto raramente, è che noi eravamo andati in avanscoperta perché io in quel momento avevo pensato di aprire una scuola in California e quindi siamo andati a vedere com’era.
Dopo aver visto l'India e la California, quello che ho pensato è che cambia la scenografia, cambia il setting, ma la vita la è la stessa!
Non è vero che c'è qualcosa di così grandioso là fuori, quello che c’è di grandioso è dentro di te.
E allora se io volevo manifestare questa mia grandiosità interiore, che è la vita che mi attraversa, forse l'avrei fatto meglio nel luogo che più conoscevo di tutto il mondo, che è questa zona. E quindi ho sentito il desiderio di non…non fuggire, perché non è una fuga, ho sentito che andava bene che io stavo qua, che aveva un senso che ero nata qua, e che se avessi voluto portare questo messaggio così forte per l'infanzia e l'educazione forse l'avrei dovuto fare nel luogo dove mi sarei mossa con maggiore velocità. Perché si muore, la vita è breve, insomma sempre le solite cose.
E spostarmi avrebbe risposto più a una dimensione onirica, ma anche di aspettativa verso quel luogo: Qui troverò quello che…e invece non c'è da nessuna parte quello che tu vuoi, perché quello che vuoi lo crei.
Certo, adesso non possiamo completamente generalizzare, se dove vivi c’è una guerra, forse c'è da un'altra parte quello che vuoi.
Quando noi ci spostiamo, non è che cambiamo mai davvero vita, cambiamo un po’ scenografia, forse portiamo anche la nostra vita forse in un luogo con più opportunità.
E io ho sentito che…questo…andava benissimo e che detto in maniera brutale: non serviva fa tutto questo casino del trasloco per fare qualcosa che avrei comunque potuto fare. Perché non c'era un posto dove avrei trovato qualcosa in più rispetto a quello che già avevo e quello che avevo era tantissimo, e le risorse erano enormi e le mie possibilità tante. Andava bene.
E questo l’ho capito durante tutto il viaggio, ma anche prima del viaggio volevo andarmene, e poi c'è stato un momento in cui volevo andare in Finlandia, perché il mio compagno lavora con la Finlandia.
Ho avuto la stessa sensazione, sono andata là e ho pensato, cavolo qui ci vivrei e mi è risorto lo stesso pensiero.
Ovviamente dipende dalla propria vita, io la mia vita sento che la voglio spendere come un'ape operaia. Io voglio davvero bottinare miele e lasciarlo allo sciame, perché tanto a un certo punto non ci sarò più. Non voglio costruirmi il mio alveare, con tutto il mio miele, con tutte le mie risorse, io voglio dare le cose agli altri e sento questa missione fortissima di sostenere i bambini, di aiutare gli adulti a capire i bambini. Come se fossi un Google Translate dei bambini. E allora lo devo fare nel posto che mi dà più velocità.
La Finlandia non mi avrebbe dato questa velocità, perché dovevo imparare le lingue, dovevo capire il posto, non avevo gli aiuti. Stare qui mi ha concesso una destrezza, una velocità che non avrei altrove perché ho una missione.
Manuela: Ora vorrei parlare un momento di quando da piccola sognavi di essere una compratrice di case di Contesse. Amo molto quel post, e stando agli ultimi aggiornamenti sempre sui tuoi post, che di recente sia successo proprio qualche cosa posso curiosare?
Emily: Curiosa…assolutamente!
Dunque, sì, quando ero piccola, ho sempre avuto una passione per le case,
disegnavo case, sono cresciuta in un palazzo nel centro storico molto particolare
e qui, ti dico anche che abito nella casa che sognavo da bambina e quindi per me proprio…altro che il galeone delle LEGO.
Sono riuscita a realizzare il mio sogno, che poi l'ho realizzato a New York.
Perché ho trovato l'annuncio di questa casa mentre ero a New York.
Io guardo costantemente i siti degli annunci immobiliari e alle tre di notte mi sono messa la sveglia per chiamare l'agenzia immobiliare alle nove e dire “Io voglio quella casa!”
Forse per il fatto che sono cresciuta in una casa particolare, per il fatto che c'è tutta la componente psichica probabilmente, cercavo una casa per me, in proprio e c'era qualcosa da cui volevo fuggire che mi faceva star male. Ho sempre sognato di fingere di essere questa contessa, di andare a visitare questi castelli e dire “sì vorrei comprarlo…” e poi te lo fanno vedere tutto, perché poi non ci si avrebbe la possibilità.
E a forza di cercare e cercare, io non so quanti appartamenti, case ho visto in questi anni. Penso anche di essere stata schedata dalle agenzie immobiliari dei dintorni, perché adesso quando rispondo agli annunci non mi chiamano neanche più.
(Emily ride)
Quindi l'hanno hanno detto “Se arriva questa…No!”
E sai perché, io ho sempre sognato e prima ti dicevo sono avida di vite,
ho sempre sognato di poter vivere centinaia di vite.
Questi giorni scrivevo una poesia su quanto è difficile per me accettare che posso vivere solo una vita, e forse questo riguarda anche la mutevolezza costante.
Mi piacciono le case senza tende, dove posso guardare dentro.
Mi piace questo infinito di traiettorie parallele che si muovono.
Il sogno si è realizzato perché mi è sempre piaciuto pensare di prendere una casa particolare, antica, con una storia dentro e quella corrente oceanica ha voluto che io a oggi sia proprietaria di un monastero del Cinquecento che, penso sia lo stesso brivido che prova un bambino di sei mesi su un’altalena, quella di “oddio che paura muoio”. Che è bello perché sento il brivido di “madonna mia, ma ci saranno i fantasmi? Va beh ma mi proteggono.”
Ho realizzato questo grande sogno, sogno che c'è sempre stato, però effettivamente non ho mai curato se non con questo turismo immobiliare.
E sta lì, questa casa immobile, eterna, a limitare di un bosco, con le montagne davanti e io vado lì e sento che sono protetta.
E vedi che alla fine, non starò sempre a Osimo. E poi sarà che a me piacciono le parole e il paese ha un nome stupendo, si chiama Amandola.
E io ho sempre pensato “Amandola, la vita” per me è una frase interrotta quel nome
ed è un nome che mi mette una gioia così grande, e quindi vediamo cosa accadrà.
Ho delle idee, però anche lì, mi lascio un po’ guidare.
Adesso mi piace stare in quella sospensione di brivido e intanto devo riuscire a familiarizzare con la casa e i fantasmi del Cinquecento.
Manuela: Bello, è bellissimo il nome Amandola.
Emily: È vero?! È stupendo.
Manuela: Adesso è il momento delle Rapid Fire Questions.
Uno dei miei momenti preferiti, cinque domande a bruciapelo, che mi piace porre un po’ a tutti i miei ospiti al termine della nostra chiacchierata e sono sempre le stesse domande per tutti.
Vado!
Il libro che ha cambiato tutto?
Emily: Come amare il bambino di Korczac
Manuela: Il migliore consiglio che hai ricevuto nella tua vita o nella tua carriera?
Emily: Non innamorarmi mai delle mie parole.
Manuela: Cosa c'è sul tuo comodino?
Emily: Ma non ce l'ho un comodino!
Ho una sedia vicino al letto che ogni tanto sposto e questa sedia è piena di libri che leggo tutti contemporaneamente. Leggo decine di libri contemporaneamente.Manuela: Che bello anch'io adoro leggere tanti libri contemporaneamente, mi dicono che sono cose che non si fanno, ma io me ne frego.
Emily: Ah...Esatto!
Manuela: C’è un libro per ogni momento della giornata personalmente cioè non puoi leggere al mattino quello che leggeresti la sera. Secondo me.
Emily: Concordo.
Manuela: Vedi!
Abbiamo stati d'animo differenti nella giornata quindi non possiamo leggere un libro tutto il tempo.Manuela: Su cosa generalmente le persone si sbagliano su di te?
Emily: Che si possono permettere di fare tutto quello che desiderano perché tengo botta.
Manuela: Qual è l'ultima cosa che hai imparato?
Emily: Mmm…allora.
L'ultima cosa che ho imparato, non me ne viene in mente una pratica, e avrei voluto tanto dirne una pratica. Ma credo che l'ultima cosa che ho imparato sia gestire il mio tempo.
Manuela: Emily, dove possiamo trovarti online?
Emily: Mi potete trovare sul mio profilo Facebook "Emily Miglianelli".
Sulla pagina di Corallo, sulla pagina di Serendipità - scuola comunità dinamica e soprattutto e su "Hundreds of Buddhas" che è il blog con tutti gli articoli e poi da lì ci sono i riferimenti agli altri siti.
Manuela: Emily io ti ringrazio tantissimo per questa chiacchierata, per gli spunti e per avermi dato la possibilità di conoscerti un po’ di più. Sono davvero contenta.
Emily: Grazie a te è stato un piacere e un onore.
Manuela: Da questo episodio mi porto a casa che siamo tutti un po’ colpevoli di minare l’identità dei bambini, se prima non ci prendiamo cura dei bambini che siamo stati, e che siamo sempre in tempo a farlo.
Ho trovato un'alleata che come me trova sollievo a usare la morte come un'amica che mi ricorda cosa conta davvero.
Sono certamente super d'accordo con lei sul concetto di essere dentro a un flusso, siamo dentro a un flusso di cose che ci accadono e imparare a osservare quel flusso e vitale.
Quando iniziamo a muovere le cose nella direzione che vogliamo le opportunità arrivano, quando iniziamo a scegliere di volere qualcosa quel qualcosa si smuove per magia? No.
Ma perché ci attiviamo e il mondo che ci circonda se ne accorge, perché sono chiare le nostre intenzioni e il lavoro che facciamo verso qualcosa è tangibile.
Questo vuol dire che tutto è sempre possibile?
E che tutti ce la fanno indipendentemente dalle circostanze? No.
Ma le cose si muovono quando noi iniziamo a smuoverle, questo è certo.
È stato interessante sapere anche che una persona come lei così produttiva e proattiva ha fatto fatica a concedersi di definirsi una scrittrice.
Dopotutto anche lei è cresciuta in un sistema che non ci insegna a vedere le nostre potenzialità per quello che sono e ad autorizzarci ad essere quello che ci piace essere, o almeno provarci senza sentirci degli impostori.
Emily è l'autrice di “Hundreds of Buddhas - viaggio intorno al mondo alla ricerca di nuovi paradigmi educativi” e di “Non basta diventare grandi per essere adulti”, edito Feltrinelli, che ho letto e ho trovato stupendo.
Vi consiglio anche di ascoltare il suo Tedx che si chiama “A che cosa è servito andare a scuola?”. Che tra l'altro è proprio dove l'ho conosciuta.
Metterò tutti i link ai libri ai contatti, e al TED sul sito delle Faville.com.
Io vi saluto e vi do appuntamento alla pagina di Instagram delle faville per continuare la conversazione vi aspetto nel prossimo episodio.
E nel frattempo vi auguro di guardare un po’ più da vicino il bambino che siete stati e di fare attenzione agli aiutanti magici.
Ciao e a presto.