Scegliere le
proprie battaglie
Irene Facheris
Quanto è importante e sano scegliere le proprie battaglie? Troppo.
Ne parlo insieme a Irene Facheris. In questo episodio parleremo della sindrome dell’impostore, della paura del femminile, del perché si ha spesso un'idea sbagliata del femminismo e di salute mentale. Irene è una Formatrice, laureata in Gender Studies, attivista trans femminista intersezionale, host di cinque podcast tra cui “Tutti gli uomini”e “Palinsesto Femminista”. Presidente dell'associazione Bossy e responsabile di Bossy +, un hub che aiuta le realtà lavorative ad avere un punto di vista più inclusivo nelle scelte in azienda. Scrittrice del libro “Creiamo Cultura Insieme: 10 cose da sapere prima d'iniziare una discussione” (Tlon Edizioni) e “Parità in pillole. Impara a combattere le piccole e grandi discriminazioni quotidiane” (Rizzoli).Nel 2020 è stata inserita dal “Sole 24 Ore” tra le 10 donne che hanno lasciato il segno, e dal “Corriere della Sera” tra le 110 donne dell’anno. E la troverete anche nel nuovo libro "Storie della buonanotte per bambine ribelli. 100 donne italiane straordinarie" di Elena Favilli (Mondadori).
Buon ascolto!
(^_^)
“Quindi mi ricordo del fatto che anch'io ho pensato quelle cose, e poi ho incontrato delle persone che hanno avuto la pazienza di raccontarmi, e poi ho cambiato idea. Quindi quando sento certe donne dire alcune cose non riesco ad arrabbiarmi, perché mi rivedo completamente. ”
— Irene Facheris
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Irene è una Formatrice, laureata in Gender Studies, attivista trans femminista intersezionale, host di cinque podcast tra cui Tutti gli uomini e Palinsesto Femminista. Presidente dell’associazione Bossy e responsabile di Bossy +, un hub che aiuta le realtà lavorative ad avere un punto di vista più inclusivo nelle scelte in azienda. Scrittrice del libro “Creiamo Cultura Insieme: 10 cose da sapere prima d’iniziare una discussione” (Tlon Edizioni) e “Parità in pillole. Impara a combattere le piccole e grandi discriminazioni quotidiane” (Rizzoli).Nel 2020 è stata inserita dal “Sole 24 Ore” tra le 10 donne che hanno lasciato il segno, e dal “Corriere della Sera” tra le 110 donne dell’anno. E la troverete anche nel nuovo libro “Storie della buonanotte per bambine ribelli. 100 donne italiane straordinarie”
di Elena Favilli (Mondadori).
PODCAST
COMING OUT: STORIE CHE VOGLIONO USCIRE - AUDIBLE
EQUALITALK: COMING OUT - AUDIBLE
EQUALITALK: RAZZISMO MADE IN ITALY - AUDIBLE
LIBRI
NOI C'ERAVAMO. IL SENSO DI FARE ATTIVISMO - RIZZOLI
PARITÀ IN PILLOLE. IMPARA A COMBATTERE LE PICCOLE E GRANDI DISCRIMINAZIONI QUOTIDIANE - RIZZOLI
CREIAMO CULTURA INSIEME. 10 COSE DA SAPERE PRIMA DI INIZIARE UNA DISCUSSIONE - TLON
Altro:
Bossy+ – Consulenza Formazione Eventi
Parità in pillole. Impara a combattere le piccole e grandi discriminazioni quotidiane – Rizzoli
Lenti femministe: uno sguardo di genere sul mondo” in esclusiva per Patreon.
Le 10 italiane che hanno lasciato il segno nel 2020 – Il Sole 24 ore
-
“Per me, cambiare idea, significa rendere chiaro che si sono ascoltate altre voci.”
Benvenuti a nuovo episodio del podcast “Le Faville” la serie dedicata a quel momento preciso in cui sentiamo che tutto sta per cambiare. La favilla è quella cosa che a un certo punto sboccia, salta, nasce e ci spinge a cambiare, creare, distruggere, ricostruire e ripensare ogni cosa. In questo spazio voglio celebrare le faville di persone molto diverse tra loro. Farmi raccontare come le hanno ascoltate e in quale luogo si sono fatte portare, attraverso conversazioni organiche e libere.
Ciao a tutte, tutti e tutt*,
in questo nuovo episodio incontro Irene Facheris.
Ho conosciuto Irene attraverso il suo Tedx.
Era il periodo delle proteste iniziate subito dopo la morte di George Floyd.
E in quei pochi minuti, Irene ha raccontato sfumature del razzismo che prima non conoscevo e che pensavo di conoscere.
Da lì ho iniziato ad ascoltare il podcast Palinsesto Femminista e la serie su YouTube Parità in pillole e a leggere i suoi libri.
Irene è una formatrice, laureata in gender studies, attivista trans femminista intersezionale, presidente di Bossy, associazione no profit nata nel 2014, allo scopo di fare divulgazione su temi come gli stereotipi di genere, sessismo, femminismo e diritti LGBTQ+.
In seguito, poi è nata Bossy+, di cui Irene è responsabile, un hub che aiuta le realtà lavorative ad avere un punto di vista più inclusivo nelle scelte in azienda.
Irene è stata una delle figure da cui ho imparato di più sui femminismi e continuo ad imparare molto.
Decidere di essere una formatrice e attivista però ha anche dei risvolti molto difficili.
I temi di cui parla fanno si che lei riceva anche un sacco di messaggi d’odio e questo non ha certo giovato alla sua salute.
In questo episodio parleremo di sindrome dell’impostore, della paura del femminile, di femminismo naturalmente, e del potentissimo potere di cambiare idea.
Vi lascio alla nostra chiacchierata.
Buon ascolto.
Manuela: Irene, grazie davvero per essere qui.
Irene: Grazie a te per l'invito!
Manuela: Ti ho invitato al mio podcast per parlare del tuo lavoro, ma anche e soprattutto di Irene. Con te in particolare vorrei iniziare la nostra conversazione partendo semplicemente dalla domanda principale, qual è stata la tua più grande favilla?
Irene: Guarda, pensavo a questa domanda anche nei giorni precedenti a questo nostro incontro. Io credo che la mia favilla, alla fine sia sempre la stessa, e si declini ogni volta in modi diversi, ma che alla fine sia sempre la stessa cosa.
Io credo di dover tanto alla me bambina nell'istante in cui si è accorta che nella vita voleva aiutare le altre persone.
Cioè, secondo me questo è ciò che mi muove a pensare a progetti, cercare nuove vie per arrivare alle persone, nuovi modi per poter comunicare, nuove maniere per essere sempre più utile. Se penso veramente a che cos'è per me benzina è questa…non saprei neanche come chiamarla, passione, vocazione, strada, non lo so.
Però mi ricordo perfettamente appunto qual è stato il momento in cui da piccola ho detto “ma a me questa cosa piace, cioè a me fare star bene gli altri, aiutare gli altri fa stare bene” e quindi tutto ciò che faccio parte da lì.
Poi ci sono dei progetti, più nello specifico, di cui magari poi se vuoi parleremo ma è proprio questa la mia favilla, questa luce che mi guida. Delle volte è una luce immensa, delle volte è una lucina piccolina e bisogna fare molta attenzione per vederla, ma so che c'è sempre.
E non importa quanto grande sia, riesce comunque a squarciare anche i momenti di buio che mi capita di avere.
Manuela: La cosa più grande che tu mi hai comunicato attraverso i tuoi libri, podcast, la serie di Parità in pillole su YouTube, e i tuoi contenuti in generale è stato il potersi autorizzare a sentirsi liberi di sbagliare, di riconsiderare di stare nelle cose per capirle.
Questo mi ha dato un grande senso di libertà.
Vivo in un mondo che mi racconta che se non dico subito quello che penso, e non ho in mano le statistiche per provarlo sono sbagliata, in ritardo, non abbastanza. E quindi per me è stato molto bello vedere che qualcuno stava comunicando concetti così importanti partendo da questo.
Quindi intanto grazie!
Ti va di raccontare cosa vuol dire per te cambiare idea? E se ti capita spesso?
Irene: Eh…allora, io per moltissimi anni ho fatto prevalere la parte di me che ha la testa molto dura, mettiamola così, sono cuspide scorpione e lo sento tutto questo scorpione nel Sagittario!
(Irene e Manuela ridono)
E quindi, per tanto tanto tempo, ho fatto fatica a cambiare idea.
Perché per me cambiare idea significava ammettere di avere sbagliato prima, in qualche modo.
Non dico naturalmente cambiare idea sui gusti, ma su delle questioni importanti, pensarla in un modo e poi rendersi conto che “no, in realtà non è come pensavo io, e in un altro modo”.
Questo cambiamento fa sicuramente crescere, ma io non ero disposta ad ammettere che avessi sbagliato.
Non ero disposta ad ammettere di essere giunta a conclusioni in maniera troppo frettolosa e questo perché viviamo in questa società, che poi appunto è la “società della performance” citando il libro di Maura Gancitano e Andrea Colamedici, che non ti perdona se sbagli.
È quasi più accettabile vedere una persona che continua per la sua strada, nonostante tutto il mondo le stia dicendo che le cose non vanno così, che non vedere una persona che invece si accorge di aver sbagliato e chiede scusa e racconta di aver cambiato idea.
Perché questo cambiare idea, questo scusarsi per i propri errori sembra quasi la manifestazione di una debolezza. Questa cosa per cui, se cambi idea, se dici che hai sbagliato allora perdi quell'immagine di persona forte, assertiva, che sa quello che vuole, che sa già tutto.
E poi, con il tempo, e soprattutto avendo avuto la fortuna di ascoltare pareri non solo diversi dal mio, ma più informati, raccontati da persone in grado di sapermi dire in un certo modo “guarda che stai sbagliando” sono riuscita a fare un altro salto e ad evolvere rispetto a questa mia caratteristica.
Per me, cambiare idea, significa rendere chiaro che si sono ascoltate altre voci.
E adesso per me è un vanto, a me piace pensare di essere una persona che ascolta e vuole imparare dagli altri, dalle altre.
Quando mi ritrovo a dire “scusate, ho detto questa cosa, ma in realtà ho sbagliato, cioè le cose non stanno così, ho parlato troppo presto. E adesso che invece mi sono presa del tempo per studiare un po’ di più il tema, mi rendo conto che sono stata superficiale e me ne scuso”.
Dire questa cosa per me equivale a dire “io so ascoltare, so ascoltare le altre persone.”
So ascoltare una persona quando mi dice “guarda che non è come pensi tu, e in un altro modo”, so mettere in discussione le mie credenze e soprattutto so tenere a mente che il mio valore non dipende dal numero degli sbagli che faccio.
Questo per me è un grandissimo insegnamento, non l'ho imparato tantissimo tempo fa, anzi forse lo sto ancora imparando.
In parte però mi rende molto più serena nei confronti della vita, dello sbaglio, dell'errore e soprattutto delle altre persone.
Io ho imparato molto tardi a chiedere scusa, ho imparato un pochino prima a dire grazie, quello sì. Ma a chiedere scusa ci ho messo veramente tanto tempo, lo sentivo proprio l'orgoglio completamente ferito, e mi ci è voluto un po’ per capire che essere considerata una bella persona era più importante del mantenere intatto il mio orgoglio.
Per me, cambiare idea, significa tutte queste cose e anche ricordarmi che un tempo non era così e provare semplicemente a dirmi che “bene, sono cresciuta, e un'ottima cosa!”.
Manuela: Infatti è così anche per me.
È molto difficile a volte riuscire ad avere un cerchio di persone accanto che vedono il tuo cambiare idea come una cosa buona.
Spesso come dicevi poco, fa per gli altri cambiare idea significa che prima non sapevi abbastanza no? Prima non eri abbastanza acculturata su questa cosa, e quindi spesso mi capita, essendo anch'io una persona che ascolta tanto (e che a volte evita di dire anche quello che pensa finché non ha chiaro proprio in testa come stanno le cose), spesso vengo fraintesa dagli altri, e gli altri credono che questo sia un sintomo di debolezza, quando invece è un sintomo di ascolto.
Perché si crede ancora che il femminismo sia la supremazia delle donne sugli uomini?
Irene: Per più di una ragione.
Qualche ragione, non è una nostra responsabilità, intendo nostra in quanto femministe, qualcun'altra forse un pochino.
Sia per una logica malata, ma che ancora esiste, provo a spiegarmi meglio.
Sicuramente ci sono delle persone che non hanno voglia di scoprire che cosa significhi questo termine. Ci sono persone che non fanno nemmeno lo sforzo di aprire Google, non dico neanche di andare prendere un dizionario e cercare, ma proprio semplicemente scrivere “femminismo” su Google e vedere che cosa esce.
E siccome per le cose che ci interessano troviamo il tempo, evidentemente, molte a persone questa cosa non interessa.
La logica vorrebbe che se non ti interessa una cosa non ne parli, no?!
Perché sai perfettamente di non avere informazioni a riguardo, in teoria.
Mentre invece, quello che succede, è che le persone non conoscono, però parlano lo stesso ma questo mi sembra un po’ lo sport del momento, devo dire.
Questa cosa del parlare anche se non si conosce, poi sui social, non ne parliamo!
Proprio sul mondo online su Internet, ci sono delle persone che in realtà dicono che “non hanno capito” come spesso accade per gli esseri umani, noi molte volte diciamo “non ho capito” quando in realtà dovremmo dire “non mi piace quello che ho capito” che è una cosa diversa.
Soltanto che dire “non mi piace quello che ho capito”, naturalmente porta a un confronto, e se non abbiamo voglia di avere quel confronto ce la risolviamo facile dicendo “no non ho capito”.
Quindi secondo me, ci sono persone che sanno perfettamente che cos'è il femminismo, ma che sono profondamente maschiliste e che quindi, fa a loro gioco loro dire “ma il femminismo vuole la supremazia delle donne sugli uomini eccetera eccetera”, perché così non devono confrontarsi su un terreno più intelligente.
E poi ci sono quelle persone che si fermano alla prima esperienza che hanno avuto.
E se la prima esperienza che hanno avuto è stata un'esperienza escludente, e in qualche modo violenta (violenta, comunque, sempre solo a parole o negli atteggiamenti, non parlo di violenza fisica, non è proprio una caratteristica del femminismo) possono fermarsi lì, a quella prima esperienza e non volerne più sapere.
È la categoria di persone che io incontro più spesso, soprattutto nel mio lavoro, soprattutto quando parlo di femminismo con persone adulte; quindi, già con qualche primavera in più rispetto agli e alle adolescenti che incontro nelle scuole.
Spesso mi raccontano che loro hanno impattato il femminismo durante la seconda ondata, sono persone che avevano magari vent'anni negli anni ‘70 o anche meno, e che hanno impattato quel tipo di femminismo che, come sappiamo, è stato un femminismo separatista, anche per ottime ragioni, no?
Ma che poi non è ritornato in una stanza, anche assieme agli uomini, anche e soprattutto per delineare quanto il problema di base fosse loro cioè dovessero loro provare a discuterne.
Quindi un sacco di uomini nello specifico, mi raccontano appunto di avere avuto questo primo incontro con il femminismo parlando con donne che dicevano loro “tu qua non ci devi entrare, questo è uno spazio nostro e tu stattene a casa tua, gli uomini fanno tutti schifo e devono morire tutti quanti” no?
Io credo di aver detto tutte queste cose in momenti di forte rabbia, e comunque noi sappiamo perfettamente che quando diciamo certe cose, le diciamo perché abbiamo una rabbia assolutamente legittima che in qualche modo deve uscire.
Però noi lo sappiamo, chi ci sente dire una cosa del genere, soprattutto se è un po’ duro di comprendonio o di suo non ha già particolarmente voglia di esplorare la questione è facile che dica “vabbè, ma scusami, cioè io volevo saperne un po’ di più, tu mi dici di andare via…allora basta!”.
E si sentono anche a posto con la scienza, qui forse noi femministe abbiamo un po’ di responsabilità, non voglio dire che dovremmo essere carine e coccolose naturalmente, anche perché io sono la cosa più lontana che esista dalla carina e coccolosa, quindi non ci riuscirei neanche volendo.
Però dobbiamo sempre chiederci quando stiamo comunicando se stiamo comunicando nella maniera più utile per raggiungere il nostro obiettivo, che è la parità, che è ridare dignità al femminile.
Occorre che gli uomini capiscano qual e il punto, è forse, tra un modo più impulsivo di dire una cosa è un modo più ragionato, il modo più ragionato ha più probabilità di portare a casa l'obiettivo.
Io spesso dico delle cose da arrabbiata, e mi rendo conto di non essere utile in nessun modo alla causa. Mi rendo conto di allontanare chi dovrebbe avvicinarsi, e semplicemente di vomitare bile, però sento anche di averne bisogno in alcuni momenti, anche perché non è che essere femminista è una missione per cui dobbiamo convertirli tutti.
Cioè non si tratta di questo, anche perché ognuna di noi, ha come dire la sua vita e anche i suoi problemi, però nei momenti in cui magari invece siamo un po’ più serene o meno arrabbiate, quelli sono dei buoni momenti per provare a raccontare il nostro femminismo, perché c'è più possibilità che le persone si fermino ad ascoltare.
Ed è necessario che le persone ascoltino il femminismo, perché non arriverà nessun cambiamento se non sarà data alle persone la possibilità di capire e di sapere che un cambiamento è possibile, che un'alternativa c’è.
Quindi secondo me queste sono le ragioni e la questione è sicuramente complessa.
Manuela: La mia difficoltà, più grande in genere accade proprio quando chiacchiero con le altre donne. Ovvero mi spiego meglio, in genere capita spesso di trovare molte donne che sono contro il femminismo, poi quando mi ritrovo a chiacchierare un po’ insieme a loro mi rendo conto che in realtà del femminismo non sanno niente.
Non hanno studiato nulla riguardo, e quindi hanno appunto questa idea che dicevi tu, che non solo è rimasta al femminismo, quello della seconda ondata degli anni ’70, ma che è anche di molto distorta. Cioè, proprio solo “le femministe odiano gli uomini, punto.”
Così, questa era una postilla mia a cui stavo pensando.
Irene: Sì beh…è capitato anche a me, e continua a capitare di avere a che fare anche con donne che non si dicono femministe. Lì, devo dire che ho messo da parte ormai da tempo la rabbia, nel senso che in realtà mi dispiaccio, mi intristisco perché mi ricordo quando io dicevo quelle cose del femminismo. Perché nasciamo tutte in una società patriarcale…ehheheh.
Manuela: Certo… io pure!
Irene: Quindi, mi ricordo del fatto che anch'io ho pensato quelle cose, e poi ho incontrato delle persone che hanno avuto la pazienza di raccontarmi, e poi ho cambiato idea.
Quindi quando sento certe donne dire alcune cose non riesco ad arrabbiarmi, perché proprio cioè mi rivedo completamente. E lì, faccio di tutto per poter essere più efficace possibile nella mia comunicazione, perché ogni giorno che passa dove una donna pensa che il femminismo non serva, e un giorno in più, in cui quella donna è in gabbia senza saperlo.
Manuela: Certo!
Irene: Date le mie parole iniziali, cioè che a me fa stare bene aiutare gli altri, in questo caso le altre. Quando incontro delle donne che la pensano in un certo modo, mi si triplica la pazienza e diventa un obiettivo, quello di cercare di raccontarglielo con parole diverse.
Manuela: Il femminismo non può cambiare nome o non dovrebbe cambiare nome, perché?
Irene: Si chiama femminismo e se lo stanno comunque dimenticando.
Stanno fingendo di dimenticarsi, stanno facendo di tutto per dimenticarselo, figurati se l'avessimo chiamato, dico “avessimo” come se ci fossi stata io, però, figurati se l'avessimo chiamato in un altro modo.
Si chiama femminismo, e stanno cercando in tutti i modi di dirci che comunque la questione non riguarda le donne, cioè riguarda tutte le persone, perché comunque la parità e per tutte e per tutti.
Cioè, se lo avessimo chiamato in un altro modo, la questione femminile sarebbe finita nel dimenticatoio in due secondi.
Si chiama femminismo e deve continuare a chiamarsi femminismo perché è l'unico modo che abbiamo per tenere il punto. Il problema non è in generale tra gli esseri umani, il problema è con il femminile, la nostra società percepisce come inferiore il femminile.
Noi staremo meglio quando ridaremo dignità al femminile.
Perché se vogliamo usare un'ottica binaria, che comunque è un po’ una anacronistica ormai, possiamo parlare di uomini e donne non è che entrambi subiscono discriminazioni allo stesso modo nella stessa quantità. Assolutamente no!
E le discriminazioni che subiscono gli uomini perché le subiscono?
Perché si avvicinano al femminile.
Tutti gli uomini che in qualche modo vengono discriminati, e perché hanno atteggiamenti che sono stereotipi chiaramente definibili come femminili; quindi, io alzo sempre un attimo le antenne quando qualcuno seriamente mi dice “ma non possiamo cambiargli nome?”.
Perché cioè, non ti penso come un alleato e non sto usando il maschile a caso, ma minimamente proprio!
Quando c'è un movimento che si sta battendo per dei diritti e tu che fai parte della categoria privilegiata, entri a gamba tesa e la prima cosa che dici è “Eh beh, ma cambiamo gli nome”, mi fa lo stesso effetto di una persona che invito a casa mia e appena entra dice “ma questo divano fa schifo, cambialo!” scusami “non credo che ti invierò mai più qu dentro!”
Manuela: Ahahahah!
Irene: Cioè, come ti viene in mente?
Sei a casa di qualcun altro!E questo è un po’ da tenere a mente, come le persone che dicono “ah ma perché Black Lives Matter, All lives matter!” e normalmente sono persone bianche a dirlo.
E voglio dire, cioè, si sta parlando di una questione che non ti riguarda in quanto vittima, ti riguarda in quanto carnefice, sì…quello sì, magari inconsapevolmente ma ti riguarda, però non sei tu la vittima.
Non sei tu che devi subire giornalmente questo tipo di discriminazione e cioè “the audacity” di arrivare e dire per prima cosa “gli cambiamo nome?” ma chi sei?
Quindi non riesco a raccontarlo in nessun altro modo se non così, se la prima cosa che ti viene da dire rispetto a una cosa che ancora non conosci è “eh, beh ma cambiamola” forse quando hanno spiegato come si ascolta, tu quel giorno hai fatto assenza.
Per fortuna si può sempre recuperare.
Manuela: Come si fa a comunicare con chi non vuole ascoltare?
Irene: Non si fa. (Irene, ride)
No.
Ci sono tantissime persone che vorrebbero ascoltare, ma non hanno gli strumenti, e quelle si possono aiutare. Quindi mi chiedo, perché perdere tempo con quelle che hanno già deciso che non vogliono ascoltare?
Come dicevo prima, non è che si possono salvare tutti.
Spostandola in una metafora politica: il mio obiettivo è quello di cercare di far capire a chi non sta andando a votare, qual è il mio punto di vista, e qual è il punto di vista della mia parte politica, ma non è che spreco forze per andare da Forza Nuova e spiegargli che
in realtà potrebbe avere senso magari distaccarsi da questa destra così estrema, perché perdo il mio tempo.
Quelli di Forza Nuova sono quattro gatti, i non votanti sono il partito di maggioranza in Italia, perché devo perdere tempo con i quattro gatti di Forza Nuova se ho una fiche, la punto su chi ancora non sta andando a votare, che ha bisogno di ascoltare cose utili.
Quindi con chi non vuole ascoltare, ho imparato grazie al femminismo, anche a scegliere le mie battaglie. Questa è una battaglia che non ho voglia di combattere.
Manuela: Sono perfettamente d'accordo.
Ma lo sai che ogni volta che mi trovo davanti a una discussione assurda, con delle risposte assurde, la prima cosa a cui penso è la frase di tuo padre: “puoi prendertela con tutti i pirla che arrivano con la risposta sbagliata, oppure puoi finalmente farti carico della domanda” …seriamente, ci penso sempre e rompe immediatamente il ciclo di spriraling.
Questo pensiero che tu hai nella testa, in cui vorresti fargli capire delle cose, cerchi di trovare tutti gli argomenti possibili o di spiegarlo nel modo più giusto, e poi penso a quella frase e penso ok, sono libera!
Irene: Eh…è la fortuna di ascoltare persone che hanno una trentina d'anni più di me, e che hanno già fatto gli errori che io sto facendo, ecco.
Quindi, si permettono di poter così suggerire un'alternativa, per evitare di perdere altri trent'anni.
Manuela: Se potessi tornare indietro a un evento storico già accaduto, per poterne prendere parte, quale sarebbe?
Irene: Credo che andrei la notte dei moti di Stonewall.
È la prima cosa che mi viene in mente, proprio perché ci sono alcune battaglie che vanno combattute, anche se non hanno te come obiettivo, no?
Anche se non stanno puntando la pistola verso di te, questa non è una buona ragione per lasciare che qualcuno spari. Quindi mi piacerebbe tanto ritornare quella sera allo Stonewall e prendere parte a quella che è stata poi l'inizio di una enorme rivoluzione che ancora non si ferma. Quindi sì è la prima che mi è venuta in mente, poi magari ce n'è sarebbero tante altre, però lì non sarebbe male.
Manuela: Come pensi reagirebbe Irene a dieci anni vedendo l’Irene di oggi?
Irene: Darò una risposta veramente immodesta, mi viene già da ridere…però appena mi hai fatto la domanda, c'è, proprio mi è venuta dal cuore.
Immagino che direbbe “lo sapevo, me lo immaginavo!”.
Manuela: Non è immodesta, comunque!
Irene: È quell'idea di cui ti parlavo prima.
Io l'ho capito da piccola che volevo aiutare le altre persone; quindi, non credo che la Irene di dieci anni sarebbe stupita, in nessun modo.
Ma come non si sarebbe stupita se fossi diventata una psicologa clinica, o se fossi diventata una chirurga, per dire.
No, quindi non è una questione di boh, la visibilità, la fama, i follower quelle cose lì, è proprio un raccontare alla me bambina che cosa faccio adesso.
Io ho la sensazione in fondo di stare aiutando gli altri, in maniere diverse, ma di stare aiutando gli altri. Quindi immagino che la me di dieci anni direbbe qualcosa del tipo “beh, sì, c'era da aspettarselo!”
Manuela: Ecco, e quello che hai detto in questa risposta, si ricollega alla domanda successiva secondo me.
Come si tiene a bada la sindrome dell'impostore in un mondo che ci racconta che sei consapevolezza di te sei un pallone gonfiato?
Irene: Non lo so.
Non lo so perché io ce l’ho fortissima la sindrome dell’impostore in realtà.
(Irene ride).
Quindi mi piacerebbe sapere come tenerla a bada.
Manuela: Vedi un attimo fatto hai detto “questa sarà una cosa immodesta” quando in verità non lo è secondo me, perché hai consapevolezza probabilmente semplicemente del percorso che hai fatto fino a oggi.
Irene: Eh…vedi!
Invece la mia sensazione era proprio quella di tirarmela tantissimo! Non lo so.
La cosa che un pochino mi salva e tenere a mente le intenzioni con cui faccio le cose, cioè, io conosco le mie intenzioni.
Io so che le mie intenzioni sono buone, poi cioè ovvio, che boh sì forse giusto i serial killer dicono che le loro intenzioni non sono buone, tutti gli altri penso che lo pensino o comunque se lo raccontino o lo raccontino agli altri.
Però se tengo a mente, che faccio quello che faccio perché ho un obiettivo che è altruista, che ovviamente mi permette di pensare bene di me, quindi poi c'è anche un obiettivo che invece è egoista, quello un po’ mi aiuta.
Io sarei per non fare mai niente, non dire mai niente, però poi penso che più persone riescono a conoscermi più persone possono ascoltare certe cose magari per la prima volta, trovarle interessanti, cominciare un loro percorso e me lo ripeto tante, tante volte.
Poi forse un pochino ci credo, però è veramente difficile perché io sono proprio, non solo la sindrome dell'impostore, io mi sento…cioè io sento di non potermi permettere di avere la sindrome dell'impostore, perché se sento la sindrome dell'impostore vuol dire che sto facendo delle cose utili, e quindi “Ah…quindi tu pensi di stare facendo le grandi cose?? Ah! Complimenti!”.
Quindi non ne esco in realtà, un loop bruttissimo!
Devo proprio spezzarlo.
Delle volte sono gli altri che mi aiutano a spezzarlo, delle volte sono le altre persone che mi dicono, “Mah, Irene, guarda che questa cosa va bene che tu la faccia, tipo se ogni tanto vuoi dire che hai scritto due libri, lo puoi dire!”.
Io non lo dico mai, io non parlo mai delle mie cose, cioè sono l'incubo delle case editrici perché in realtà io scrivo i libri poi “si, vabbè, però non è che c'è bisogno tanto di dirlo sempre no?”.
Perché ho proprio questa ansia di risultare in qualche modo piena di me, cioè io già per altre ragioni che riguardano il mio carattere, che però hanno più a che fare con la timidezza nove su dieci sembro una stronza.
Quando mi presento alle persone, ci manca soltanto che ci aggiungo anche “ah, ma lo sai che io ho fatto questo, questo e quest'altro?” quindi cerco sempre di avere un low profile per compensare questa mia convinzione del fatto che le persone mi conoscono e pensano subito “ah, questa è una stronza”.
Poi non so se sia realmente così, però io ho questa convinzione bruttissima e quindi, questo è quanto. Questo è il mio loop.
Manuela: Io ho notato, venendo a vivere qui a New York, questa differenza culturale che c'è tra l'Italia e gli Stati Uniti proprio su questa cosa.
Dove io sono cresciuta e dove immagino anche tu, ogni qualvolta si ottiene qualcosa, che sia raggiunge un traguardo o anche semplicemente si cresce professionalmente, se tu lo dici come stavi dicendo tu un attimo fa, se tu lo racconti, le persone tendono a guardarti come “quella se la tira” o “però quella se la crede un po’ troppo”.
Poi sono venuta qua, e ho trovato l'opposto dall'altra parte, nel senso che comunque qui c'è una cultura molto basata sull’auto vendersi.
Quindi le persone, anche magari con microscopici traguardi, riescono a vendersi come se avessero fatto un qualche cosa di particolarmente grande ed eclatante.
Quindi qua forse c'è un po’ l'opposto.
Però mi ha insegnato molto vivere qua, perché in effetti io credo che questo sia un errore della nostra cultura, devi essere sempre umile fino al midollo.
Che è una cosa che trovo in realtà proprio sbagliata, perché comunque in un certo senso, una persona quando inizia a crescere, come persona e non solo a livello di carriera, dovrebbe quantomeno arrivare a un punto in cui è in grado di auto valutare ciò che ha fatto bene e ciò che ha fatto male, no?
Quindi avere consapevolezza di sé e poterne parlare apertamente, solo che però secondo me, questa è proprio una cosa che a noi non hanno insegnato.
Qualunque cosa è troppo, qualunque cosa dici di te stesso o del tuo lavoro, passi subito nello scalino di quello che sta recitando una parte, mentre invece in realtà non ha molto senso.
Irene: Che poi, tra l’altro, questa cosa è duplicata se stiamo parlando di donne.
Perché comunque se ci fai caso, sentire un uomo che parla dei suoi successi è più probabile, insomma come immagine.
Mentre invece se una donna dice “ah ma io ho fatto questa cosa qui, ho raggiunto questi risultati” subito “eh, sì vabbè ce l'ha solo lei! Pensa che c'e l’ha solo lei un'altra in Congo”.
No?
Manuela: Assolutamente, verissimo!
Irene: Quindi, questi sono proprio temi che si intersecano.
La questione della performance con il sessismo, per cui, anzi, forse agli uomini in un certo senso non solo è più scusata, ma è anche ce lo si aspetta un po’ forse no?!
Per cui sei un uomo e non hai nessun successo personale da nominare sei un po’ uno sfigato, mentre invece se sei una donna e ti metti a elencare le cose che hai fatto, cioè “chi ti credi di essere?”
Manuela: Assolutamente!
Io che non amo particolarmente farmi dei selfie o fotografarmi, ricordo di avere messo una foto su Instagram anni fa, e ce ne sono davvero poche.
Nessuno mi deve dare una medaglia per questo e che, sono veramente, veramente poche. Sono io che tendo a fotografarmi molto poco.
Mi è capitato di ricevere un commento, tra l’altro da una donna in quel caso, che diceva “Eh…Manuela ma anche meno!”.
(Irene ride)
E tipo sul mio feed ci saranno non lo so, ci saranno tipo quattro foto della mia faccia.
E quindi questa cosa mi ha fatto pensare no? Cioè anche quando c'è il meno, anche quando fai poco, poi ti arriva un commento che ti dice “anche meno”.
Sempre meno, sempre più meno, meno, meno, meno… sparisci già che ci sei!”
Irene: Eh…non mi stupisce che sia arrivato da una donna, perché d’altra parte ci insegnano a essere poco presenti, trasparenti da un lato e dall'altro poi ci vogliono il più presenti possibile, però come dicono loro o con lo sguardo che è il loro.
E in generale, noi come donne all'interno della società, dovremmo essere meno in tutto e quindi come dire, se io sono una donna e vedo un'altra donna che invece ha avuto il coraggio, immaginami mentre faccio delle air quotes, perché non si parla di coraggio.
Però ha avuto il coraggio di postare una sua foto e immediatamente io penso “perché non io ce l'ho, questo coraggio? Perché lei si è permessa di fare una cosa che va contro ciò che la società ci ha detto di fare? Perché lei sì e io no?”.
E quindi anziché prendersela con la società, con una società patriarcale che è il vero nemico, me la prendo con l'altra donna perché non riesco ancora ad avere uno sguardo così ampio da vedere la complessità che sta dietro una banalità, come può essere mettere un selfie, e infastidirsi per aver visto il selfie di un'altra.
Manuela: Assolutamente centrato il punto, si!
Con il tuo lavoro hai influenzato molte persone, in particolare quelle più giovani sulla parità e sul conoscere meglio la comunità e LGBTQ+ sui diritti, e so che questo non ti è costato poco, sia nell'atto pratico, che mentalmente.
Hai mai pensato “ma chi me l'ha fatto fare?”?
Irene: Si!
Un numero considerevole di volte, ma non “solo chi me lo ha fatto fare”, ma “chi me lo sta facendo fare ancora”, perché comunque sono dieci anni che ho un canale YouTube ormai.
Bossy è nato nel 2014, io ho iniziato a fare Parità in pillole nel 2016.
Quindi comunque che mi occupo di questi temi nello specifico a livello pubblico, sui social sono quasi sei anni, e sto continuando. Quindi “chi me lo sta facendo fare?” questa è una domanda che mi faccio sempre, perché comunque io sono abbastanza convinta che se non avessi preso questa strada, se non avessi fatto quello che ho fatto, io non avrei vinto una diagnosi di depressione quest'anno.
Probabilmente me la sarei scampata in qualche modo perché so perfettamente da dove arriva tutta la mia sofferenza, tutto il buio che sento, tutto il mio disagio arriva da come il mondo, una parte di mondo reagisce alle cose che dico e agli argomenti di cui mi occupo.
“Chi me l'ha fatto fare”, ai tempi l'ingenuità, ecco mettiamola così, mi faccio spesso una domanda: “Mhmm…se nel 2016, fosse venuta la me del futuro a dire, guarda che se tu fai così succede questa cosa qua, avresti comunque fatto tutto? La mia risposta è “non lo so!”.
Quello che mi fa continuare ancora adesso a farlo nonostante tutto e sapere che questa cosa fa bene, cioè è vero che mi pesano tantissimo i messaggi d'odio, tutto quel veleno che poi mi fa venire mal di stomaco, mi fa star male, però devo ammettere che sono comunque molti di più i messaggi delle persone che mi ringraziano tantissimo, che mi dicono: “io ho scoperto il femminismo grazie a te, io sono cresciuta con te”.
Oltre al fatto, che alcune delle persone che hanno iniziato a seguirmi all'inizio, nel frattempo adesso sono entrate nel mondo del lavoro e quindi anziché chiamare un'altra persona chiamano me. Perché conoscono me, ma mi hanno conosciuta che magari facevano il primo anno di università e quindi, se penso a queste cose, penso che sì, ne vale la pena!
Manuela: Che bello!
Irene: Sono certa che il bene che sto provando a fare sia più forte del male che stanno facendo a me, però non è mai facile ecco, questo sì decisamente.
Ogni giorno decidere di postare, decidere di dire “va bene ok, anche oggi scrivo, mi faccio vedere, insomma in qualche modo scrivo qualcosa, parlo di un tema” è pesante.
Infatti, comunque, nonostante io sia sempre presente sui social, soprattutto su Instagram, le volte in cui parlo dei miei temi nello specifico sono molte meno.
Il fatto che io posti una foto al giorno non significa in nessun modo che io una volta al giorno parli di femminismo.
Ho anche avuto bisogno di allontanarmi un po’ da questo tema, almeno nella vita social cioè nella mia vita privata non mi ci allontano, fa parte di me, continuo a leggere, studiare, sarà per sempre parte di me. C’è stato un periodo, anzi più di uno, in cui ho proprio dovuto staccare è la cosa tremenda è stato vedere come basta che tu per una settimana non parli di quel tema e non dico che finisci nel dimenticatoio, comunque non per le persone, però tipo per l'algoritmo si.
Per l'algoritmo è come se non fossi mai esistita e questa cosa la trovo di un tossico raro, perché è proprio il discorso del “tu devi produrre, se non produci non esisti”.
È proprio una logica capitalista applicata al mondo dei social ed è disgustosa, non mi vengono altre parole.
Manuela: È vero, però la cosa buona è che per chi invece ti segue in maniera organica, chi davvero ha interesse nei tuoi contenuti, ti cerca.
Irene: Quello sì, devo continuare a ricordarmi i lati positivi. E che i lati positivi me li devo ricordare, i lati negativi posso anche non pensarci che tanto mi vengono sbattuti in faccia quotidianamente, quindi è un po’ difficile, però ci sto provando.
Manuela: Eh lo so, è complicato.
È veramente un'arte imparare questo e ci vuole tempo, e io anche, per le mie cose faccio molta fatica e a concentrarmi su quello che ho anziché su quello che non ho.
Non in termini di cose fisiche intendo, proprio in maniera generale.
Se potresti andare a cena con quattro persone viventi o no, con chi andresti?
Irene: Allora, vorrei andare a cena con Virginia Woolf, un po’ vorrei andarci a cena.
Vorrei andare a cena con Kurt Cobain…viventi quindi, vorrei andare a cena con Caparezza tantissimo! E vorrei andare a cena…beh, con Alexandria Ocasio-Cortez.
Tre donne e un uomo però…no, cioè due donne e due uomini, ma uno dichiaratamente femminista, cioè andare a scrivere negli ascensori “Dio è gay” quindi di che cosa stiamo parlando! E l'altro che comunque insomma scrive dei testi che vanno in quella direzione.
Manuela: Ma che figata sarebbe averli tutti e quattro insieme contemporaneamente a cena!
Irene: Sì sì, me lo sto immaginando proprio così, insieme.
Manuela: Ok, perfetto questo è il momento delle Rapid Fire Questions.
A ogni ospite del podcast mi piace porre queste cinque domande, e mi piace vedere la differenza con cui con rispondono. Allora parto!
Il libro che ha cambiato tutto?
Irene: Novecento di Baricco.
Manuela: Il migliore consiglio che hai ricevuto nella tua vita o nella tua carriera?
Irene: Non puoi fare la femminista se sei morta.
Manuela: Cosa c’è sul tuo comodino?
Irene: Una lampada di sale, una candela, la sveglia che tanto non guardo mai, un pacchetto di fazzoletti.
Manuela: Su cosa generalmente le persone si sbagliano su di te?
Irene: Sul fatto che io sia molto sicura di me.
Manuela: Qual è l'ultima cosa che hai imparato?
Irene: Quando si smette di portare rancore è una bella cosa, e quindi ci si può allenare per smettere di portarne il prima possibile.
Manuela: Irene dove ti possiamo trovare su Internet?
Irene: Mi si può trovare più o meno ovunque.
Quindi soprattutto su YouTube, su Instagram cercando CMDR cioè Cimdrp.
Questo perché quando ho aperto il mio canale YouTube, mia madre stava cucinando le orecchiette con le cime di rapa, ma cima di rapa era già preso quindi l'ho dovuto scrivere in barese, togliendo un po’ di vocali; quindi, è diventato Cimdrp e nonostante io non origini del Sud come tutti ci credono. Tutti pensano che abbia origine del Sud, quando capiscono il nickname però, no.
Manuela: Lo sai che anch'io l’ho pensato? Ahahah
Irene: Ahahah, invece no! Oppure sul mio sito irenefacheris.it
Manuela: Irene, grazie mille per questa chiacchierata!
Irene: Grazie a te!
Manuela: Spero che tu non smetta mai di fare quello che stai facendo.
Irene: Spero anch'io, perché vorrà dire che avrò trovato un modo per continuare a farlo stando bene, quindi è la stessa speranza.
Take Away
Un altro episodio è terminato.
Io mi porto via che quando si fa la cosa giusta, e il mondo fuori ci tira giù, proprio perché è quella cosa giusta non riesce ancora ad accettarla, l'unica cosa che ci salva e tenere gli occhi sul bagliore che ha dato inizio a tutto e ricordare a sé stessi ogni giorno le cose buone ottenute.
Mi porto però anche a casa che le battaglie vanno scelte, comprese quelle per salvaguardare sé stessi, la propria salute mentale e fisica.
Io vi saluto e vi auguro di non mollare, o di mollare e spostare l'attenzione su qualcosa di diverso, qualunque sia la scelta che vi fa stare bene davvero.
Ciao e a presto!