Trasformare
il dolore
Valentina Noya
Possiamo trasformare il dolore in qualcosa che ci è utile?
Io e Valentina Noya ne parliamo nel nono episodio delle Faville.
Valentina è una progettista culturale, ricercatrice, facilitatrice internazionale al video partecipativo, produttrice e molte altre cose. Insieme parleremo di violenza di genere e del Festival Liberazioni. Il primo festival nazionale che coinvolge in sezioni di concorso parallelamente detenuti e liberi. Parleremo di come il lavoro con le carceri sia strettamente connesso alla vita personale di Valentina e di come questa esperienza abbia impattato il suo percorso nel superare un evento traumatico. Parleremo di empatia, di sorellanza e di come conoscere le sfumature spesso ci aiuti a trasformare il dolore in qualcosa di buono.
Buon Ascolto
(^_^)
“Questo sforzo enorme di comprendere,
di riuscire ad acquisire delle tecniche per elaborare il dolore, le emozioni che anche se sono apparentemente negative, la rabbia,
la paura, che albergano in noi possono convivere con altre emozioni positive. Quindi possono essere utilizzate come carburante,
per portare a termine dei progetti anche molto ambiziosi, e questa capacità di utilizzare il dolore come vettore anche per aiutare cooperativamente gli altri in questo percorso.”
— Valentina Noya
Scopri di più su Valentina Noya
Valentina è una progettista culturale, ricercatrice, facilitatrice internazionale al video partecipativo e produttrice. Dopo un intenso training su i soggetti sopraccitati ad Oxford con Insightshare e Agave ha dato vita a Festival Liberazioni di cui è direttrice il primo festival nazionale che coinvolge in sezioni di concorso parallelamente detenuti e liberi. Festival nato dopo la sua intenso training su Co-fondatrice della casa di produzione Notte Americana nata nel 2021. È vice-presidente e project manager dell’Associazione del Museo del Cinema di Torino.
Self-empowering visual methods | Valentina Noya | TEDxCrocetta
Keep Innovation – Pillole di mestieri: Ricercatrice video partecipativo Valentina Noya
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“Di nuovo il tema del dolore, trasformare il dolore in qualcosa…sublimare il dolore in qualcosa di bello”.
Benvenuti a nuovo episodio del podcast “Le Faville” la serie dedicata a quel momento preciso in cui sentiamo che tutto sta per cambiare. La favilla è quella cosa che a un certo punto sboccia salta nasce e ci spinge a cambiare creare e distruggere e ricostruire e ripensare ogni cosa in questo spazio voglio celebrare le Faville di persone molto diverse tra loro.
Farmi raccontare come le hanno ascoltate e in quale luogo si sono fatte portare attraverso conversazioni organiche e libere.
Ciao a tutte, tutti e tutt*In questa puntata chiacchiero con Valentina Noya.
Valentina è una miriade di cose.
È la direttrice del Festival LiberAzioni – l'arte dentro e fuori dal carcere.
LiberAzioni è il primo festival nazionale che coinvolge in sezioni di concorso parallelamente detenuti e liberi. Mettendo in comunicazione questi due mondi attraverso prodotti artistici, cinematografici e letterari.
Attualmente Ventina è vicepresidente dell'Associazione Museo Nazionale del Cinema a Torino. È consulente e facilitatrice internazionale al video partecipativo, dopo una formazione intensiva sul tema ad Oxford insieme a InsightShare e alla sua associazione Agàve.
È produttrice del film VR Free di Milad Tangshir, selezionato, come unico film italiano di realtà virtuale, in concorso alla 76esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Valentina è anche una ricercatrice, e in Salvador nel 2014, la sua ricerca sul campo ha trattato il tema della Memoria correlata ai traumi di guerra e ne parla, nel suo TEDx "Self-empowering visual methods” che potete trovare su YouTube.
Valentina ha anche da poco dato via alla sua casa di produzione che si chiama Notte Americana.
Sono sicurissima di avere scordato almeno una buona dozzina di altre attività che la vedono coinvolta.
Uno dei principali motivi per cui ho voluto avere Valentina nel mio podcast è la moltitudine di discorsi che riusciamo a toccare ogni volta che ci confrontiamo, e la sua capacità di movimento continuo, come donna e come professionista.Insieme parleremo di violenza di genere e di come è nato il Festival LiberAzioni, di empatia, di sorellanza e di come conoscere le sfumature spesso ci aiuti a trasformare il dolore in qualcosa di buono.
Buon Ascolto!
Manuela: Ciao Valentina!
Valentina: Ciao Manu!
Manuela: Che bello averti qui finalmente!
Tu sei stata una delle prime persone a cui ho pensato quando o scelto d’iniziare questo progetto e finalmente oggi siamo qui, perché sai bene quanto io ami parlare e confrontarmi con te.
Allora io partirei chiedendoti da che cosa si parte per trasformare qualcosa di traumatico in un evento che genera qualche cosa di nuovo?
Valentina: È una domanda molto complessa.
Quando ho deciso di lavorare nelle carceri, quindi in un mondo connesso alla pena, al dolore per antonomasia, non è stata sicuramente una decisione consapevole.
Era un progetto che aveva un suo percorso, una serie di partners, di persone che mi hanno condotto verso quel mondo, ma allo stesso tempo a posteriori penso che sia davvero scattata una favilla di avvicinamento ai percorsi di resilienza per mettere poi delle fondamenta per lavorare in seguito sul dolore, sul mio dolore e sul dolore altrui
In generale penso che per superare qualsiasi tipologia di evento traumatico sia necessario fondamentalmente riconoscere questo evento traumatico, riconoscere di averlo subito e di non essere stati responsabili di questo evento; quindi, di fatto di non meritare quello che ci è accaduto ma allo stesso tempo non superare anche quella prima fase di vittimizzazione che è normale che accada.
E per quanto riguarda in generale la violenza di genere, ma tutte le violenze, non solo gli eventi estremamente traumatici che le donne subiscono nell'arco della loro vita, bisogna sempre stare molto attente a questo tema dell'attribuzione di responsabilità, perché come donne spesso tendiamo da moltissime e impropriamente.
Manuela: Come nasce il Festival LiberAzioni?
Valentina: LiberAzioni nasce da un incontro nato nell'ambito delle collaborazioni dell'Associazione Museo Nazionale del Cinema, con la quale collaboro da ormai diversi anni. Sono oltre sette-otto anni quasi, noi portiamo avanti moltissimi progetti d’inclusione sociale.
L'avvicinamento al carcere è nato dal desiderio progettuale di alcune donne molto più grandi di me che hanno subito dei percorsi di detenzione quando erano più giovani, perché facevano parte della lotta armata negli anni 70, ed è un percorso quindi nato dal connubio, dallo scambio intergenerazionale tra donne ma non solo. Diciamo che nei progetti e sempre bene avere un buon mix, anche di genere.
E quindi diciamo che questo avvicinamento è nato grazie a queste persone, che tenevano in particolar modo alla valorizzazione di questo contesto spesso bistrattato, ai margini anche del discorso mediatico, della nostra società. Perché il carcere è un po’ considerato come se fosse una sorta di cestino della spazzatura della nostra società, quando in realtà il vissuto della popolazione detenuta e anche i percorsi di vita percorsi anche culturali, i percorsi di crescita interiore delle persone che sono recluse sono fortissimi. E soprattutto, le persone spesso amano dire, le persone che hanno subito la detenzione, questo gruppo di donne che oggi fanno parte comunque di diverse cooperative, associazioni che lavorano anche in questo settore, il tema è proprio quello di non identificare la persona con la sua pena.
Noi non siamo quello che abbiamo fatto, in generale nella nostra vita è importante riconoscere a tutti un'identità, un’unicità come esseri umani e per questa ragione il Festival nasce con l'idea di applicare delle pratiche artistiche portare letteralmente un vero e proprio Festival, con i propri concorsi, vere e proprie sezioni di concorso di cinema, di scrittura all'interno delle mura carcerarie per stimolare la popolazione detenuta alla pratica artistica, per risvegliare le proprie capacità e quindi di nuovo il tema del dolore, trasformare il dolore in qualcosa, sublimare in un certo senso il dolore in qualcosa di bello cosa.
Manuela: Cosa hai capito di te attraverso l'esperienza delle Festival?
Valentina: Eh…sicuramente ho scoperto, mi sono rimessa in pari con questa capacità di stare in contatto con un dolore interiore, un dolore che nasce spesso dalle profondità della propria infanzia, delle proprie mancanze e soprattutto anche una capacità di stare in contatto con una dimensione dell'altrove.
Io ho un passato da cooperante internazionale, ho sempre subito una grandissima fascinazione per le lingue, per le culture in generale, per le culture diverse dalla nostra. Forse questo mi deriva anche un po’ dall'esperienza di mio nonno, che in fondo era un antropologo mancato, era laureato in scienze naturali, però poi tutta la vita ha fatto il regista e l’etnografo. Penso che come dire, sia molto appagante portare avanti progetti che ti mettano in contatto con quella parte che poi è tua, interiore, cioè questo altrove che ognuno di noi può coltivare dentro se stesso e non è fondamentale come diceva Walter Benjamin, ci sono anche tanti scrittori che sono marinai, che quindi viaggiano fisicamente ma allo stesso tempo ci sono anche tanti scrittori tanti narratori che sono contadini, cioè che quindi vivono sempre nello stesso luogo ma riescono magicamente con la propria fantasia a raccontare l'universo-mondo, l'intera umanità.
Quindi credo che veramente il carcere sia una bellissima metafora di un luogo prossimo fisicamente in tutte le città, ce ne sono e a volte purtroppo c'è anche questa tendenza alla periferizzazione delle carceri. Un po’ in tutto il mondo c'è questa idea di allontanarli proprio fisicamente dai centri nevralgici urbani per far sì che questa umanità si allontani sempre di più, si distacchi; invece, quello che cerca di fare anche LiberAzioni è creare questa osmosi perché è un’osmosi arricchente, che fa comunicare mondi diversi ma che possono appunto arricchirsi l'altro.
Manuela: Come ci si sente a posteriori a osservare sé stessi sapendo di essere stati in grado di fare questo passaggio trasformativo tra la tua esperienza personale e il Festival LiberAzioni?
Valentina: Io venivo da un'esperienza personale e processuale ancora in corso di una violenza subita, per cui ho avuto la forza di denunciare e quindi avviare un iter processuale giuridico molto molto faticoso.
Mi sono scontrata con quello che è effettivamente il sistema penale nel nostro paese, quanto sia complesso. Allo stesso contemporaneamente, per puro caso in realtà, c'è stato questo incontro e l'avviamento di queste progettualità legate al carcere io non sapevo quanto intimamente poi le due cose potessero essere interrelate.
La riflessione di fatto tra il mio percorso, quindi quello di una vittima diciamo da un punto di vista di categorizzazione e quello invece dall'altra parte, un mondo che mi si stagliava di condannati, di persone che erano in carcere perché avevano commesso dei crimini. Questa conoscenza intima di un mondo che era tutto d’ingiustizie, nel senso che sia dalla mia parte come vittima sentivo di subire delle ingiustizie da parte del sistema.
Perché poi è stato un iter veramente molto faticoso che è durato praticamente tre anni interi della mia vita, dalla metà del 2016 alla metà del 2019, per cui fondamentalmente la prima edizione LiberAzioni è avvenuta nel 2017, ma avevamo già iniziato a lavorare alla acremente nel 2016, per cui nel pieno dell'onda del mio trauma.
Fondamentalmente in ancora non mi era completamente adattata, ero riuscita in un certo senso a riprendere un po’ le fila, ha definire quello che era successo e a denunciare quello che era successo, ma non ero assolutamente fuori da questo tunnel di difficoltà e anche di sensi di colpa perché come dire, compiere una scelta come quella non è facile, ci si rende anche molto conto di chi ti è veramente vicino, di chi è capace di accettare quello che tu stai facendo e chi invece purtroppo non comprende il tuo dolore, non comprende il senso e la ricerca di giustizia che tu stai compiendo per te stessa.
E quindi LiberAzioni mi ha molto aiutato nel senso che è stato un passaggio e una trasformazione contemporanea, nel senso che liberazioni si è un po’ generato come una sorta di propaggine anche per me, ha rappresentato questo lato pratico anche nel lavorare sul mio trauma. Prendere sempre in considerazione anche quell'altra parte per uscire anche proprio dalla mia dimensione come dire solipsistica di vittima, riuscire a riconoscere che anche all'interno del mondo criminale anche lì delle vittime ha reso tutto molto più complesso ma allo stesso tempo accettabile, non so se sia molto chiaro quello che sto dicendo?
Manuela: Assolutamente chiaro, posso solo immaginare la complessità della situazione.
Valentina: Però, allo stesso tempo questo essere a mio modo portatrice di un'esperienza traumatica e avere avuto a che fare con il sistema giudiziario italiano, mi ha reso molto più empatica nei confronti dei percorsi delle persone detenute che ho incontrato e molto più capace di interessarmi realmente a quella babele, a quell’intricato mondo di cavilli e complicazioni e interpretazioni della realtà che porta il carcere.
Anche perché poi spesso i detenuti e le detenute sono portati molto spesso forse, più i detenuti uomini per una questione anche lì tutta di genere da approfondire, sono poi alla fine condannati a vestire una maschera, una maschera che è quella che gli viene attribuita, un certo ruolo, un certo personaggio dal quale non vogliono uscire un po’ per vergogna magari di quello che hanno fatto, e ti rendi conto di quanto poi sia difficile anche l'elaborazione di quei traumi, ed effettivamente anche la sensazione anche dei crimini che loro hanno compiuto.
Perché non passa attraverso, quasi mai, una piena consapevolezza e accettazione di quello che è stato fatto, quando quello è l'elemento fondamentale anche per la giustizia riparativa.
Riuscire comunque a comprendere di aver fatto qualcosa di male, ma non dover essere per forza condannati per sempre anche interiormente a essere il proprio crimine, ma essere capaci di riconoscere a sé stessi di essere anche altro.
Manuela: Certo, indubbiamente è stata un'esperienza che ha aggiunto una serie di scale di grigi a questa visione bianco e nera che in genere si ha nei confronti di chi commette un reato no? C'è il male, il bene.
Valentina: Assolutamente, un mondo purtroppo dominato dalla dicotomia e dalla semplificazione, dal giustizialismo e io credo che soprattutto le vittime, i sopravvissuti e le sopravvissute a degli eventi che implicano comunque la messa in moto della macchina del sistema giuridico debbano farsi parte attiva di un discorso di complessificazione.
Perché non è possibile ridurre la nostra società a buoni e cattivi, non è possibile.
I buoni sono nel mondo esterno, ma il mondo è abitato anche di persone in libertà che sono delle persone criminali, che sono delle persone assolutamente spregevoli che dovrebbero stare in carcere eppure non ci stanno. E le carceri sono piene di persone che hanno commesso dei crimini veramente stupidissimi, e che però fanno un'esperienza a sua volta traumatica, perché il carcere di per sé, per la sua conformazione (a meno che uno non finisca in un carcere scandinavo) sono esperienze estremamente traumatiche non esperienze riabilitative, rieducative, ma se possibile esperienze recidivanti.
Questo implica che appunto ci sono delle ingiustizie che vanno perpetrare soprattutto ai danni delle donne, perché se consideriamo che la popolazione percentuale, per esempio, in un paese come l'Italia è circa il 10% della popolazione detenuta è donna.
I crimini che compiono le donne sono di fatto dei crimini legati alla loro sottomissione all'interno di ulteriori sistemi patriarcali e maschilisti che le avevano già vittimizzate per altri motivi, e quindi il carcere non fa che consolidare un sistema di ingiustizia di patriarcato anche sulle donne.
Manuela: Da chi e da che cosa è arrivato il sostegno più inaspettato per la tua trasformazione?
Valentina: Io penso che sia arrivato soprattutto da me stessa, e come ti dicevo prima, dopo aver subito questa violenza c'è stato bisogno di tanto tempo per metabolizzare.
Anche i tempi tecnici dei processi purtroppo creano uno stillicidio interiore, perché avere la certezza della pena talvolta e anche una certezza psicologica per le vittime, perché dici va bene qualcuno mi sta considerando.
Quello che ho detto, quello che ho fatto, ho denunciato faticosamente (perché poi, anche il mio iter di denuncia è stato complicatissimo e faticosissimo) però sono arrivata a un punto in cui sono riconosciuta, sono vista per quello che ho subito.
E invece anche quello arriva dopo tantissimo tempo, le indagini sono durate tantissimo. Insomma, io a un certo punto pensavo che avessero archiviato il mio caso e che non fosse degno di essere considerato.
Però in tutto questo percorso iniziale dopo la denuncia, io mi sono sentita molto sola, però sono riuscita in un certo senso, sempre a tenere, come dire una sorta di timone interiore in cui ero certa di quello che avevo fatto, nonostante tutti gli schiaffi che ho preso, istituzionali.
Il fatto è che poi alla fine la mia diciamo personale battaglia, comunque, non si è conclusa bene, ma sono stata comunque contenta di avere vissuto questa esperienza, anche a sua volta violenta.
Cioè, stare all'interno di un iter processuale è un'esperienza estremamente sconvolgente, faticosa. in cui anche la realtà, i fatti, l'oggettività viene completamente ribaltata e ho conosciuto così tante altre donne grazie anche al progetto di LiberAzioni.
Tante donne che hanno subito dei traumi a causa dei percorsi processuali, che hanno vissuto tutto questo e mi ha portato però a arrivare a sentirmi a un certo punto, quando il percorso si è finalmente concluso (anche se non bene, oggettivamente non c'è stato un happy ending) mi sono sentita forte alla fine del percorso, ho detto “io sono forte, e sono forte di questa esperienza. Un’esperienza che poi potrò comunicare e che potrò utilizzare per aiutare gli altri”.
Quindi sì, il sostegno più grande è arrivato da me stessa, allo stesso tempo ha avuto anche la una grande fortuna che è stata quella di incontrare una nuova terapeuta.
Ho cambiato il mio vecchio psicologo per una nuova terapeuta donna, molto più giovane, più giovane anche di me, che mi ha introdotto alla terapia MDR, una tecnica estremamente valida per aiutare tutte le persone che hanno subito dei traumi a uscirne, e credo che questo sia stato fondamentale per il mio percorso di fuoriuscita dal trauma.
Manuela:Qual è stata fino ad oggi la tua più grande favilla?
Valentina: Penso, a posteriori adesso chiacchierando con te, è stata questo sforzo enorme di comprendere, di riuscire ad acquisire delle tecniche per elaborare il dolore, le emozioni che anche se sono apparentemente negative, la rabbia, la paura, che albergano in noi possono convivere con altre emozioni positive.
Quindi possono essere utilizzate come carburante, per portare a termine dei progetti anche molto ambiziosi, e questa capacità di utilizzare il dolore come vettore anche per aiutare cooperativamente gli altri in questo percorso.
Per questa ragione, sono molto felice, perché io essendo comunque una studiosa, una ricercatrice nel campo delle metodologie visuali partecipative, sento di aver acquisito proprio degli strumenti personali in più per applicare queste metodologie, per condurre i miei laboratori di video partecipativo.
Attualmente sono appunto molto felice, sto lavorando per esempio con delle vittime di discorsi d'odio, quindi mi sento a mio agio.
Questa esperienza mi ha fatto venire a patti proprio con le mie fragilità, e si, penso che veramente la mia grande favilla sia stata riuscire ad accettare la mia fragilità e a utilizzarla.
Manuela: Cosa vedi chiaro oggi rispetto al tema della violenza che prima di avere una esperienza personale non eri in grado di vedere?
Valentina: Proprio si è tolto un po’, come quando si dice, il prosciutto dagli occhi.
Nel senso che purtroppo mi sono accorta che la violenza è davvero ovunque, è pervasiva e permea alle relazioni umane, soprattutto proprio il nostro impianto sociale, occidentale, capitalista, patriarcale è basato su questa forma di relazione.
Diciamo che teoricamente avendo fatto comunque degli studi come dire, di relazioni internazionali, storia contemporanea, insomma antropologia questi concetti mi erano già molto chiari anche prima che capitasse qualcosa di traumatico a me personalmente.
Ma lo era solo in termini teorici effettivamente, non avevo fatto un'esperienza così sconvolgente da potermi fare proprio come si suol dire, toccare con mano quello che è lo stato, il termometro, il nostro termometro emozionale collettivo e sociale.
C'è da dire che questo imprinting sociale permea moltissimo la capacità o meglio l'incapacità di consapevolezza delle persone che poi alla fine si riducono a essere complici di questo sistema.
E purtroppo è quel sistema che appunto condanna le donne ai margini di potere della nostra società, da questo punto di vista non di dire, non voglio dire che “non fossi femminista, adesso lo sono o adesso sono femminista” anche perché questo è un argomento poi facilmente strumentalizzabile e io non mi sento di esprimermi da questo punto di vista, sento comunque che sono le donne che dovrebbero essere intransigenti da questo punto di vista.
Sento che noi come donne dobbiamo avere un certo approccio, e dobbiamo avere quasi un approccio se vogliamo educativo, anche se poi qualcuno potrebbe dire “ah, le maestrine!”, sì dobbiamo fare questo cercando di dissimulare il più possibile questo aspetto di insegnamento.
Per quanto poi, secondo me insegnare è un gesto di estrema generosità, quindi io penso che le donne dovrebbero essere fiere di essere portatrici di un messaggio rivoluzionario che è necessario che sia rivoluzionario ancora oggi, perché la rivoluzione non è stata fatta o almeno non è stata completata. Questo è poco ma sicuro.
Manuela: Non potrei essere più d'accordo con te.
Se dovessi pensare a una sola cosa che ogni donna privilegiata potrebbe fare per aiutare a distruggere la violenza di genere, quale sarebbe?
Valentina: Ma sicuramente oltre alla parte diciamo educativa che è forse la parte più soft, io penso che basti guardarsi attorno perché chiunque può, a proposito dell'aprile gli occhi e del vedere chiaro nella notte. Insomma, in un certo senso, io dal momento in cui ho iniziato un percorso di consapevolezza di quello che avevo subito ho cominciato immediatamente a essere
attorniata come se fossi una sorta di calamita, non facevo che incontrare donne che avevano subito qualcosa o anche amiche che mi raccontavano di conoscenti.
Donne che poi si aprivano con me mi raccontavano quello che avevano subito; quindi, io penso che una delle azioni più semplici che può fare una donna nei propri rapporti più personali e farsi da cassa di risonanza per le battaglie di altre donne, di altre sorelle a lei vicine che hanno bisogno di un supporto, che hanno bisogno di un aiuto.
Perché va detto, che comunque non si può combattere sempre da sole, io sento, mi sento anche più forte perché sento che un mio percorso l'ho fatto individualmente, l'ho fatto davvero da sola con i miei strumenti. Ma devo dire che se fossi stata inserita in un contesto, in una società più aperta, più femminista sicuramente questo percorso non sarebbe stato così accidentato, non sarebbe stato così duro.
Quindi penso che veramente sia necessario aiutare le altre donne, e le donne che sono vicino a noi perché c'è bisogno di coalizzarsi, purtroppo anche nel lavoro è difficile incontrare delle dinamiche apertamente cooperative tra donne, e invece è una cosa che va assolutamente coltivata per essere più forti, nel privato come nel pubblico.
Manuela: È assolutamente vero, e infatti quando tu hai parlato delle tue vicissitudini, le hai rese pubbliche, io credo che quello sia stato anche un grandissimo atto di generosità. Il fatto che tu abbia incontrato persone che avevano avuto delle esperienze, delle violenze e che ne hanno parlato con te, non è affatto un caso. Nel momento in cui una persona si espone, allora tu ti senti libera di dire anche la tua, ad esempio guardavo l'altro giorno le stories di Irene Facheris, e lei ha raccontato di essere uscita a portare fuori il cane, di aver incontrato una persona che si stava masturbando, e ha chiesto pubblicamente di scrivere nei dm se era capitato anche altre donne. Ovviamente hanno risposto 800.000 persone, e Irene giustamente diceva “molto spesso quando parlo con le persone di queste cose che mi accadono, mi viene risposto - eh ma capitano tutte a te!” e lei giustamente dice “no, capitano a tutte, solo che io lo racconto”.
Valentina: Assolutamente. A volte è proprio il timore che le nostre storie siano banali, siano scontate che ci porta a nasconderle, quasi a vergognarcene e invece non c'è niente di cui vergognarsi nel condividere le proprie esperienze.
A volte parliamo di cose così sciocche, così stupide, i social sono pieni di conversazioni, dibattiti spesso anche faide su argomenti veramente irrisori. Io non vedo per quale motivo non si possa parlare con libertà anche di esperienze che ci hanno fatto male, perché è liberatorio appunto.
Il Festival LiberAzioni si chiama così anche perché c'è una anche maiuscola dentro il titolo di liberazioni, perché l'idea che ci siano atti che noi possiamo compiere che ci liberano, e lo possiamo fare noi, sono in nostro potere.
Manuela: Assolutamente sì!
Cosa si prova a essere spettatrice lavorando come facilitatrice al video partecipativo.
Tu hai il privilegio di assistere alle emozioni dei soggetti in tempo reale e quindi mi chiedevo, come ha impattato questo sulla tua vita personale?
Come ha impattato nel caso specifico del lavoro che appunto hai fatto con le carceri mentre elaboravi la tua vicenda personale?
Valentina: Sicuramente per me, da quando studiavo all'università e a un certo punto durante il master di cooperazione internazionale allo sviluppo, sono incappata in un corso diciamo specialistico di metodologie visuali partecipative che sono molto radicate anche a livello accademico per quanto riguarda la ricerca la ricerca-azione nel contesto anglosassone.
In Italia per fortuna si stanno facendo dei grandi passi avanti in questi ultimi anni, grazie anche a una persona come Cristina Maurelli che ha finalmente, come dire compendiato tutta una serie di grandi esperienze, che lei ha fatto di video partecipativo pubblicando anche dei libri sull'argomento, proprio sulla metodologia, consolidando una metodologia italiana.
Il video partecipativo, che non esisteva fino ad adesso, dire che per me è qualcosa che a livello professionale mi dà una grandissima soddisfazione perché per me è sempre stato bellissimo lavorare con le persone, lavorare nei focus group, già quando facevo comunque ricerca per l'università in alcuni progetti.
Ecco, sentirsi catalizzatori proprio di processi creativi collettivi, sia che ci sia di mezzo la parte creativa artistica, per me è fondamentale ma perché è una parte che in nuce in ognuno di noi ed è bellissimo poter lavorare su questo tipo di insegnamento profondo.
Io non ho pensato fino a pochi anni fa di essere una persona con una certa vocazione alla formazione, all'insegnamento e invece devo dire che in questo in questo piccolo segmento che è quello molto particolare del video partecipativo, che altro non è che l'insegnamento dei rudimenti degli strumenti dell'audiovisivo del fare cinema per persone, per gruppi, per comunità che abbiano voglia di raccontare le proprie storie. Quindi è un percorso allo stesso tempo di formazione di empowerment rispetto a situazioni che altrimenti non avrebbero voce.
Quindi attraverso il mezzo audiovisivo, un mezzo potentissimo, imparare a fare e allo stesso tempo imparare anche a comunicare e a entrare in contatto con le proprie, le storie a dare valore alle proprie storie e a diffonde.
Quindi c'è un grande processo che viene fatto all'interno dei percorsi del video partecipativo in cui poco importa, come dire il risultato del prodotto, anche se per me in realtà è fondamentale.
Oggi anche ciò che scaturisce dai laboratori di video partecipativo è importante che abbia una qualità elevata, perché per essere visto e importante essere in linea con i codici, con linguaggio della contemporaneità, però è importante soprattutto il processo che viene fatto insieme alle persone, e in cui c'è un moto fortissimo in cui si dà, io sento di dare molto di quello che ho dentro, ma allo stesso tempo ricevo tantissimo.
E questo moto osmotico di dare e ricevere ci insegna ogni giorno ed è davvero la conoscenza che arricchisce.
La vera conoscenza è questa, la conoscenza dello scambio tra persone.
Mi piace l'idea di ricordarmi un adagio che era scritto su un foglio attaccato a una lavagnetta nello studio del migliore amico di mia mamma, alla Giudecca a Venezia in una casa bellissima, dove c'era scritto “solo lo stupore conosce, solo l'umiltà impara”.
Ecco per me questo adagio è come dire un po’ un grande aiuto per la mia, per il mio fare tutti i giorni.
Manuela: Wow!
Tu sei una ricercatrice, e di conseguenza anche per natura un'osservatrice.
Osservando il mondo attraverso questa esperienza che ci hai appena raccontato, cosa vorresti approfondire o capire meglio sul comportamento della società in cui vivi?
Valentina: Allora questa è una domanda veramente molto…cioè una domanda esistenziale quasi, direi!
C'è uno spirito dentro di me, uno spirito veramente interstiziale che è ottimista per il quale ti direi che mi piacerebbe scoprire qualcosa di bello sulla natura umana.
Per esempio, legato all'empatia, io sono una grande fan delle teorie sulle emozioni di Martha Nussbaum o di Daniel Kahneman, allo stesso tempo temo che come dire, anche l'osservazione della natura umana non è univoca, nel senso che, come il mondo, non è bianco e nero, nemmeno le persone sono bianche nere. E c'è una grossa porzione, questo è stato come dire studiato, analizzato nel corso della storia, dalla sociologia, una scelta diciamo, una materia che non ha mai acceso grande grande fervore in me.
Però allo stesso tempo mi rendo conto che il tema dei modelli sociali per esempio di Merton, cioè statisticamente c’è una tendenza delle persone a essere conformiste e quindi oggi in una società come quella capitalistica è chiaro che prevalgono emozioni tendenti all'egoismo e purtroppo su questo non possiamo farci molto, se non provare ad aspirare a differenziarci, a essere rivoluzionari, e a essere diversi.
Manuela:Questo è il momento delle Rapid Fire Questions, che sono cinque domande che pongo a tutti i miei ospiti, e poi a me piace tantissimo vedere le differenze tra le risposte.
Parto!
Il libro che ha cambiato tutto?
Valentina: Ah!
Manuela: EHEHE, lo so!
Valentina: Questa domanda è difficilissima, perché dentro di me inizia come dire una sorta di approccio razionalista in cui mi chiedo:
Ma il libro il romanzo?
Il libro il saggio?
Quando? in che età della mia vita?
Perché poi in realtà ci sono tanti libri che hanno tanto o libri che mi hanno soprattutto colpito moltissimo, penso che da un punto di vista forse primo il primo libro in assoluto che ha cambiato anche il senso della percezione dell'animo umano, della comprensione empatica forse che ho anche dell'animo umano è sicuramente Delitto e castigo di Fiodor Dostoevskij.Manuela: Il migliore consiglio che hai ricevuto nella tua vita o nella tua carriera?
Valentina: Come ti dicevo prima, ho citato quell'adagio che poi anche se poi non mi è stato un consiglio. Io sono molto diffidente nei confronti dei consigli, a volte appunto li trovo molto paternalisti, quando le persone ti consigliano proprio con l'idea di consigliarti…ecco sono molto refrattaria ad accettare non le critiche. Le critiche invece le accetto volentieri.
Manuela: Che cosa c'è sul tuo comodino?
Valentina: Allora, sul mio comodino attualmente…allora ne ho due, perché io uno non mi basta.
(Valentina ride)
In uno c'è la lampada e nell'altro diciamo …l'altro è una specie di svuota tasche, di poggia borsa, insomma il comodino per l'uscita di casa mettiamola così, dove ci sono che non devo dimenticare prima di uscire di casa.
Invece il comodino dove c'è l’abatjour, di solito c’è una pila di libri che sto leggendo, che poi ciclicamente quando passano troppi giorni se è uno di quei libri che stavo leggendo, non lo sto più leggendo allora lo rimetto nella libreria.
Manuela: Su cosa generalmente le persone si sbagliano su di te?
Valentina: Le persone si sbagliano nel vedermi una persona estremamente sicura di sé, perché non lo sono, e penso anche che sia giusto non esserlo, ecco.
Manuela: Certo, sei umana.
Valentina: Eh si!
Manuela: Qual è stata l'ultima cosa che hai imparato?
Valentina: Ma guarda, moralmente devo dire che da poco mi si accesa una lampadina ascoltando l'intervista di un regista che è una carissima persona che è Giuseppe Piccioni.
Da poco ha presentato a Torino l'ultimo film L'ombra del giorno, che comunque è un'opera notevole per il panorama cinematografico della produzione italiana.
Beh, qualcosa che mi ha risuonato.
Lui l'ha detto assolutamente per una questione completamente avulsa da quello che erano le mie riflessioni estemporanee degli ultimi giorni, però lui ha detto qualcosa relativo al fatto che la paura e il coraggio possono convivere, e questa cosa per me è incredibile.
Nel senso che si, è un grande insegnamento, che ci sono emozioni appunto come dicevo prima emozioni contrastanti anche negative che dovrebbero teoricamente abbattere l'animo umano dal fare determinate cose e invece comunque è possibile far convivere il coraggio, il desiderio di giustizia, la propria ricerca interiore, artistico verso degli obiettivi anche se ci si sente male.
Anche se, adesso non voglio dire che serva la paura o che serva la rabbia per forza per fare delle cose belle o per fare delle cose utili. Però il fatto di vivere determinati stati, se vogliamo faticosi, delle emozioni brutte o faticose da accettare, può invece portarci (se utilizzati bene) queste emozioni possono portarci lontano.
Manuela: Valentina, io ti ringrazio molto per queste chiacchiere bellissime e come sempre me ne torno a casa dalle nostre conversazioni piena di ispirazione grazie 1000.
Valentina: Ma si, anch'io comunque devo dire che mi fa sempre piacere sentirti e mi arricchisce tanto come, com'è giusto che sia lo scambio tra esseri umani, ecco.
Manuela: Grazie, grazie mille.
Take Away
Da questo episodio mi porto via che allontanarmi da una visione binaria di giusto e di sbagliato, di bianco e di nero è sempre la migliore cosa che posso fare per capire meglio il mondo in cui vivo. Mi porto a casa anche che il dolore può in qualche modo trasformarsi ed evolvere parti di noi, questo non significa che il dolore sia un qualcosa da andare a cercare, ma quando ad un certo punto assolutamente non richiesto ci capita di ritrovarcelo davanti, dopo averlo metabolizzato e possibile riutilizzarlo. Un po’ come letame con i fiori.
Io vi aspetto nel prossimo episodio e nel frattempo vi auguro di osservare le sfumature.
Ciao e a presto.